Dall’aia alle cucine
L’allevamento di piccoli animali nelle aie e nei cortili era pratica diffusa sia in campagna che in città, e consentiva alle famiglie di disporre di carni fresche di buona qualità e di uova, da utilizzare per la preparazione di cibi. Salvo qualche caso in cui questi animali venivano tenuti per semplice curiosità o per il diletto degli allevatori (sono i termini usati dal Sonsis per le galline faraone ed i conigli) la loro destinazione "naturale" era infatti la cucina. E numerosi sono quindi i piatti della cucina tradizionale o dei ristoranti e delle trattorie del territorio cremonese. | ||||
Testimonianze di vita cremonese di città e di campagna | ||||
Quale fosse l’importanza degli animali dell’aia nell’alimentazione dei Cremonesi risulta dalle vivaci testimonianze raccolte in occasione della pubblicazione di un libro sulle tradizioni alimentari del territorio cremonese (24), che distingue le testimonianze "cittadine" da quelle di campagna. La distinzione non è tuttavia molto rilevante, dato che gli scambi e gli intrecci tra città e campagna in materia di alimentazione erano continui, ed anche sul piano topografico la separazione era di fatto inesistente: le prime cascine sorgevano alle porte della città che, allargandosi oltre la cerchia delle mura, le aveva pian piano inglobate. La distinzione che emerge più forte è invece quella determinata dalle disponibilità economiche delle famiglie. In ogni caso il rapporto con gli animali è crudamente realistico, del tutto privo di sentimentalismi (25) (quando si tenta di dar voce al sentimento, parlando di galline come se si trattasse di persone di famiglia, si finisce per cadere involontariamente nel grottesco dal momento che poco prima si è descritto con assoluta naturalezza il crudele procedimento usato per sopprimerle), (26) spietatamente orientato all’ingrasso, alla macellazione ed al consumo alimentare. Unica eccezione in un quadro complessivamente truculento è quella di chi alleva polli ed uccelli di ogni genere per il solo piacere di godere della loro bellezza e della loro eleganza. | ||||
(24) Carla Bertinelli Spotti - Ambrogio Saronni, I Cremonesi a tavola. Ieri e oggi, vol. II, Cremona 2005 (25) L’assoluta mancanza di sentimentalismo è una costante nei rapporti tra il mondo contadino e gli animali allevati per averne aiuto nei lavori agricoli o per fini alimentari. Ne è buon esempio questo episodio, della prima metà degli anni Novanta del secolo scorso. Un ragazzo di città, colto e ben educato, in visita a mia nipote Paola nella casa di campagna di mio fratello, si imbatté in un contadino che con un carro trainato da un cavallo era venuto a raccogliere l’erba falciata nel prato davanti a casa; tanto per fare conversazione e per mostrarsi gentile il ragazzo lo salutò e gli disse «che bel cavallo! come si chiama?» «cavàlo, si chiama cavàlo» fu la risposta – divenuta proverbiale nel lessico familiare della famiglia di mio fratello – dello stupito contadino. (26) Nel già cit. Buono da mangiare Marvin Harris racconta – cito a memoria – di una tribù che vive sulle montagne all’interno delle Filippine presso la quale i maialini vengono cresciuti insieme ai bimbi di famiglia, con i quali dividono giochi e cibo (e come loro sono allattati al seno delle donne della tribù); tanta familiarità di vita non impedisce che, quando lo si ritiene necessario, i maialini vengano macellati, cotti e mangiati dall’intera tribù senza alcuna commozione o rimpianto. | ||||
Galline conigli e altri animali […] la gallina ripiena si vedeva a Natale, a Pasqua e per le feste di famiglia. Al papà piaceva il cicerone, a me la coscia, il resto veniva diviso tra gli altri due fratelli; la mamma mangiava quel poco che restava. [...] Una volta c’era uno che girava (Benedini, credo si chiamasse) e vendeva conigli; invece erano gatti: ne abbiamo mangiato uno senza saperlo, era buono. | Pina Ardenghi | |||
Una gallina durava una settimana [si mangiava poco, una volta] ... metà uovo a persona oppure un pezzettino piccolo di pollo o di anatra con pane e polenta: una gallina durava una settimana. [...] A cena si mangiavano pucìin con verdure, interiora di pollo e polenta. [...] La mamma ha sempre avuto un pollaio ben fornito di galline, che producevano tante uova, anitre e capponi. [...] L’oca si conservava, già cotta arrostita e tagliata a pezzi sotto il suo grasso. Si teneva al fresco, in cantina [nelle teràgne (pignatte di terracotta)], e si mangiava durante l’inverno. | Bruna Dal Bono | |||
Il ripieno per la gallina lessa [...] La mamma era del Bosco ex Parmigiano, i suoi avevano un’osteria famosa per come si cucinavano polli e galline. Il ripieno di gallina (con pane grattugiato, tanto formaggio, qualche spicchio d’aglio, un uovo e del burro sciolto in bianco) è ancora oggi apprezzato in casa mia da famigliari e amici. | Morvana Dossena | |||
Il ripieno per la gallina lessa – 2 [...] Alla domenica si mangiava quasi sempre carne a lesso [...]; alcune volte c’era invece la gallina ripiena, con pane grattugiato e scottato con acqua bollente, formaggio, un uovo e un bel cucchiaio colmo della famosa pistàada che era costituita da lardo tritato con aglio e prezzemolo. Questo ripieno era molto buono. | Maria Teresa Rebecchi | |||
Rìis e tridùra [...] Si mangiava carne solo la domenica, alternando il manzo alla gallina che andava cotta con un ripieno di uova e di pane e formaggio grana grattugiati, insaporito dalla noce moscata. Ricordo che nel brodo si cuoceva il riso e tutte le interiora tritate finemente (rìis e tridùra). | Franco Cimardi | |||
Un intingolino [...] La domenica si faceva un intingolino con parti secondarie di pollo (zampe, intestini, collo, ala, fegato) e con verdure (cipolle, carote, sedano e patate); il pollo intero si mangiava in occasione di festa grande e più raramente si comperava anche la carne. | Anna Mazzolari | |||
A tavola nelle feste di Natale [...] Il pranzo di Natale era particolarmente ricco, ..., gli agnolotti cotti nel brodo di gallina, manzo e vitello, […] il cappone al forno con il suo bravo ripieno fatto con il pane biscottato, macinato finemente e uova, insaporito con abbondante grana e aromatizzato con la noce moscata. [...] Per Santo Stefano c’era un mare di avanzi, ma la mamma preparava sempre la cosiddetta bomba di riso, uno sformato con abbondante ripieno di ragù ricco di carne e fegatini di pollo, che per me era il piatto migliore di tutto il Natale. | Maria Grazia Bellotti | |||
Delle oche non si butta nulla […] Quasi importanti come il maiale erano le oche, che venivano letteralmente ingozzate di polenta e quando avevano raggiunto il peso stabilito venivano uccise. La pelatura era molto importante, perché bisognava togliere le prime piume, le piumette ed il piumino separando il tutto perché era materiale di valore assai diverso, che veniva impiegato per fare cuscini e trapunte. Poi le oche venivano disossate, tagliate a pezzetti e preparate per essere messe nei vasi di terracotta per la conservazione. Con gli ossi e le ali si faceva il brodo. Qualche collo veniva disossato e riempito col ripieno; con la pelle in eccedenza si preparava un condimento per minestre, friggendola nel burro con cipolla e grasso d’oca; dopo si metteva in vasi e si conservava per l’inverno. Dell’oca non si sprecava nulla, si usavano persino le budella con le quali si faceva la trippa: mia nonna Peppina [...] per pulirle faceva uso del fuso della lana, che infilzava con la punta nelle budella per aprirle meglio. | Teresa Abitanti | |||
Sanguinaccio d’oca [...] Al tempo dell’uccisione delle oche, allevate dalla nonna, la magica zuppiera raccoglieva il sangue dei volatili che colava dal collo inciso con un coltello, quindi la nonna cucinava il sanguinaccio che era più delicato di quello del maiale. Friggeva una cipolla affettata in un po’ di grasso d’oca e vi aggiungeva il sangue, che si raggrumava, salando e speziando alla fine […] | Mariarosa Guarneri | |||
Vita da pollo, tra pollaio e stia [...] Si evitava l’acquisto delle uova, perché la mamma allevava direttamente le galline; venivano nutrite con erba e granoturco per lo più spigolato, cioè raccattato nei campi dopo il raccolto, perché nei solchi restavano sempre delle pannocchie sparse. All’estremità del cortile della casa c’era il pollaio: piccola stanzetta che era l’habitat notturno o invernale delle galline, che nelle ore diurne e calde razzolavano, si spollinavano e starnazzavano nella ghiaia del cortile. [...] Per Natale, principale festa dell’anno, non mancava mai il cappone che veniva preventivamente ingrassato, chiuso nella stia. Nella festività veniva lessato ripieno, fornendo così un brodo che richiedeva di essere sgrassato. | Valeria Pini | |||
A qualcuno di famiglia si tira il collo delicatamente [...] Anche il nostro pollaio, seppure ben fornito, non ci permetteva di consumare una gallina alla settimana. La macellazione del pollame era compito della mamma. Quando tirava il collo a una gallina ne metteva la testa sotto il manico della scopa, con una mano teneva le zampe e con l’altra tirava il corpo delicatamente per non staccare la testa, poi la appendeva per le zampe così il sangue defluiva e il collo lentamente si gonfiava e prima di spennarla la immergeva in acqua bollente. Alcuni pennuti, particolarmente le oche, dovevano essere spennati subito, ancora caldi, per conservare l’ottimo e utilissimo piumaggio. «Ho tirato il collo a quella rossa, era piena di uova»: sentivo dire simili frasi dalla mamma, che parlava delle sue galline come di qualcuno di famiglia, lodandone le qualità. Questa operazione avveniva spesso al venerdì per cui il pranzo del sabato era assicurato con l’intingolo di frattaglie, comprese zampe, creste e bargigli, accompagnato dalla polenta. La gallina ripiena e i tagliolini fatti in casa cotti nel brodo, erano il classico pasto domenicale. Quello che avanzava tornava in tavola il lunedì, freddo o in intingolo. [...] Il pollaio per le famiglie era fonte primaria di sostentamento. Galline, tacchini, anatre, oche e conigli costituivano una ricchezza che doveva essere utilizzata solo quando la materia prima era ben ingrassata affinché rendesse al meglio. Le oche venivano imboccate trattenendole tra le ginocchia e infilando nel becco fino al gozzo grossi bocconi di polenta, tanto che quando venivano lasciate andare non riuscivano a stare in piedi e barcollavano come ubriache. Qualche massaia le teneva addirittura legate a una catenella perché, non movendosi, utilizzassero tutte le risorse per ingrassare in fretta. Anche le uova erano determinanti: in cucina per la pasta, i dolci e le frittate, fuori casa come strumento di baratto con il pescivendolo o il fruttivendolo ambulanti che a loro volta le rivendevano in città. | Pierina Beltrami | |||
Allevamento per diletto [...] Al papà piaceva allevare animali da cortile, ma non finivano in pentola; li allevava per il gusto di vederli crescere, muoversi, volteggiare: erano fagiani, tortore, upupe, galline americane, piccioni viaggiatori, pavoncine, pavoni, conigli, conigli di Borgogna, enormi... Per nutrirli andavamo a raccogliere foglie di robinie, erbe selvatiche; per i suoi fagiani il papà andava perfino a cercare formiche e uova o larve nei formicai ... Mai veniva dato loro pane raffermo, e non solo perché di solito non restava mai pane, ma perché la mamma voleva che venisse dato ai poveri, insieme a quella poca minestra che avanzava; i poveri non finivano mai di ringraziarla. Sulla parete di un salone che dava sul cortile, vicino alle gabbie dei fagiani, ricordo un affresco che raffigurava una botte su cui stava un uomo a cavalcioni con il bicchiere in mano e sul cartiglio sottostante si leggeva la frase L’arte e il mestiere si godono nel bicchiere. Presumo che l’autore fosse Tomè, perché lavorava in un salone vicino all’osteria, in una piccola fabbrica artigianale di cavallini di cartapesta. | Ezio Quiresi | |||
Non tutto il male vien per nuocere [...] Le donne della mia famiglia (abitavamo allora alla cascina Bredazze di Pieve S. Giacomo, di cui il papà era fittabile) si dedicavano con impegno all’allevamento dei polli […] Quando arrivavano le faine a saccheggiare il pollaio io ero tutto contento perché la tata, con i pollastrelli uccisi, preparava ottimi polli alla diavola. | Franco | |||
Autarchia e fantasia [...] In tempo di guerra non c’era cioccolato e nessun bambino mangiava a Pasqua le uova di cioccolato, ma ci si impegnava per avere uova speciali, colorate. Si raccoglievano i funghi del legno, li si faceva bollire e, nella stessa acqua, si facevano cuocere le uova; il risultato erano uova sode il cui guscio, che aveva assorbito il colore scuro dei funghi, sembrava di cioccolato. Per il giallo si usava il ravizzone, per il verde il grano tenero o l’erba. I bambini tiravano per le strade sassose di campagna le catene del camino per pulirle dalla fuliggine: ognuno tirava quelle della sua famiglia, ma qualcuno si impegnava a farlo anche per i vicini e si tirava dietro cinque o sei catene. A pagamento naturalmente: la paga in natura era di uova sode colorate. | E. Soldi | |||
Megazabaione, riti misteriosi e baratti [...] Di uova c’era grande abbondanza, e si mangiavano in tutti i modi; servivano per fare la sfoglia e per fare le torte; venivano anche portate a tavola, come secondo: o sode, ripiene con capperi e tonno, o strapazzate (i sfracasòt). Mio padre usava le uova in quantità industriale per fare lo zabaione: ne impiegava 50 e più … La preparazione dello zabaione, che mangiavamo con la torta margherita, era un rito che si celebrava di solito a Pasqua: vi partecipava tutta la famiglia, ma il Gran Sacerdote era papà, che usava il guscio di mezzo uovo come dosatore per il cognac e il rum; lavorava personalmente l’impasto con un frullatore a mano, mentre la cottura, su un fornellino a brace, era curata con pazienza da Marietta, una delle donne che aiutavano in casa. La cottura era la fase più delicata e il papà si innervosiva, mentre la mamma, saggiamente, stava lontano dalla zona d’operazioni…; il più delle volte tutto riusciva bene, ma quando non succedeva era un dramma! [...] Anche per la carne si tendeva ad usare prevalentemente quella dei polli allevati in cascina: dal macellaio del paese (che poi si forniva da noi di manzi e di bovini adulti) si andava solo per il lesso con cui arricchire il brodo; a casa mia non si usavano le bistecche e quanto all’arrosto l’unico che si concepiva era quello di faraona con le patate. Di faraone avevamo un grosso allevamento, vivevano semilibere intorno alla casa, appollaiandosi sugli alberi: erano la disperazione di Marietta perché facevano uova dappertutto. Avevamo anche capponi: veniva a "caponare" una donna detta la Gialda per il pallore del viso, sempre con la cuffia in testa. A noi bambini faceva paura, anche perché l’operazione che veniva a compiere era circondata di mistero ed i bimbi maschi non potevano assistere al rito; ci davano poi da mangiare il pucìn fatto con le creste e i granelli... I capponi arrivavano in tavola lessi, con il ripieno. Usavamo mangiare anche le galline, ma erano meno apprezzate; la mamma per lo più le usava come merce di scambio, dandole in baratto ai mercanti ambulanti che venivano in cascina a vendere stoffe, generi di merceria...: le galline e le uova servivano per pagarli. | Alfeo Garini | |||