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L’allevamento e il commercio: piccola storia locale

Gli animali dell’aia (o da cortile, dato che venivano allevati anche nei centri abitati, dove le case sono prive di aia, elemento caratteristico delle "corti" di campagna) sono da sempre presenti nel Cremonese. La presenza dell’uomo in epoca preistorica è attestata da reperti archeologici, che talora forniscono indicazioni anche sulle sue abitudini alimentari. Inizialmente gli antichi abitanti si muovevano liberamente sul territorio, procurandosi i mezzi di sussistenza con la caccia, la pesca e la raccolta di erbe e di frutti spontanei. Gradualmente la vita nomade ebbe fine ed iniziarono i primi stanziamenti in luoghi adatti, vicini a fonti di acqua dolce, ed iniziarono le prime attività agricole e di allevamento di animali. È però difficile stabilire quando ebbe inizio l’uso di allevare a scopi alimentari pollame ed altri animali: è assai probabile che i primi esperimenti fossero compiuti nutrendo e facendo crescere i piccoli di animali selvatici (oche, anatre, conigli, etc.) catturati nel corso dell’attività di caccia. Fra i resti di animali rinvenuti nella stazione neolitica del Vho di Piadena «è segnalata la presenza dell’oca e della lepre»(1).

(1) M. Pearce, Una pianura tra le acque: preistoria e protostoria del Cremonese, in Storia di Cremona. L’età antica, Bergamo 2003, p. 45.

La preistoria

Ai primi abitatori del territorio in epoca storica, i Celti, si attribuisce la diffusione nell’Europa centro occidentale dei polli, dopo che gli stessi erano stati introdotti dagli Sciti.

I Romani, che subentrarono ai Celti e che fondarono la città di Cremona nel 219 a.C., facevano largo uso di galline, di anatre e di oche. Probabilmente le allevavano, anche se dai resti che ci sono pervenuti non è possibile escludere che si trattasse, non si sa in quale misura, di animali selvatici; tuttavia la circostanza che la maggior parte del pollame risulti macellato quando aveva circa sei mesi d’età induce a ritenere che si trattasse prevalentemente di animali allevati proprio per il consumo delle carni (2).

(2) Lynn Passi Pitgcher Archeologia della colonia di Cremona: la città e il territorio, in Storia di Cremona. L’età antica, Cremona 2003, p. 204.

I celti e i romani

Dopo la caduta dell’impero Romano e le invasioni barbariche, nel 603 d.C. i Longobardi si assicurarono il controllo del Cremonese. Erano una popolazione bellicosa, ma che si dedicava con competenza anche all’agricoltura ed all’allevamento: lo attestano le leggi da loro emanate (ad esempio l’editto di Rotari, del 643) che contengono numerose norme per disciplinare e tutelare lo svolgimento delle attività agricole e zootecniche.

Quando nel 774 alla dominazione dei Longobardi si sostituì quella dei Franchi la situazione del territorio cremonese non subì sostanziali modifiche. In quel periodo il governo regio era assai poco stanziale; pur in presenza di una città capitale, la corte si spostava di frequenza nei territori del regno, al fine di meglio controllarli, e si insediava in qualcuna delle numerose corti o ville (delle vere e proprie aziende agricole) che facevano parte del patrimonio diretto del re; la loro organizzazione era regolata da una precisa normativa: il Capitulare de villis (composto da 70 articoli, non datato ma steso tra la fine dell’VII e la fine del IX sec.), la cui lettura ci offre un efficacissimo quadro dell’attività rurale del tempo. Nelle corti regie vivevano servi e contadini addetti al lavoro dei campi e all’allevamento del bestiame (cavalli, giumente e puledri; vacche, porci, pecore e capre; api, ed anche polli ed oche). Numerose erano le corti regie nel territorio cremonese: a ovest di Cremona vi erano quelle di Sesto, Fagedo, Muciana e Valdo Meleto, ma la più importante era certamente la corte regia di Sospiro, ove spesso risiedettero i re carolingi, come dimostrano i diplomi qui emanati fin dalla prima metà del sec. IX.

I longobardi e i franchi

Ma col tempo l’interesse dei re Franchi si concentrò su altri territori, e la conduzione in Italia delle aziende agricole regie, che continuarono ad essere molto estese, fu affidata a conti e marchesi, che su di esse esercitavano il potere a nome del re; tale potere, inizialmente affidato di volta in volta con incarichi alla persona, divenne poi un diritto ereditario, trasmesso da padre in figlio. I contadini che vivevano nelle corti, lavorando la terra ed allevando il bestiame, erano costretti a versare parti notevoli dei prodotti del loro lavoro a chi era investito del potere di emanazione regia. Nelle carte conservate nell’Archivio di Stato di Cremona si può leggere, ad esempio, che nel 1151 a Castelnuovo Bocca d’Adda i contadini versavano ai proprietari un terzo e, a volte, anche metà dei raccolti per i campi, e dovevano pagare censi in denaro per le case nelle quali abitavano. È interessante rilevare che i polli erano talora considerati come mezzo di pagamento in sostituzione o ad integrazione del denaro (3).

I polli (secondi in ciò solo al maiale) avevano infatti un ruolo importante nell’economia rurale e domestica, nonché nell’alimentazione del tempo. Nella cucina della povera gente la carne tuttavia compariva raramente (solo quella di maiale, allevato nelle corti e macellato tra dicembre e gennaio, e qualche pollo), essendo essa prerogativa della nobiltà e delle classi abbienti. I poeti cremonesi del XIII secolo (4), in genere appartenenti a famiglie nobili o dell’alta borghesia, offrono interessanti testimonianze dell’alimentazione delle classi elevate, nella quale un posto di rilievo è riservato a galline cotte a puntino ed a capponi da servire in tavola in modo appropriato, su tovaglie candide ed in belle stoviglie, con accompagnamento di peverade calde e di buon vino.

Come s’è detto, per i poveri raramente era possibile consumare la carne: qualche pollo, un po’ di maiale, praticamente mai carne di bovino. Gli Statuti comunali per venire incontro ai bisogni dei meno abbienti avevano prescritto ai macellai di vendere sulla pubblica piazza, in città, carni a poco prezzo: quelle di animali morti per malattie non dannose alla salute, nonché le parti meno nobili degli animali macellati (teste, gambe e frattaglie, quelle che oggi vengono complessivamente chiamate il quinto quarto); insomma anche allora poteva valere il detto ottocentesco secondo il quale quando un povero mangiava un pollo c’era sempre di mezzo una malattia: o era ammalato lui o lo era il pollo...

(3) Francois Menant, La formazione delle signorie locali, in Storia di Cremona. Dall’Alto Medioevo all’età comunale, Cremona 2004, pp. 187-188.

(4) Uguccione da Lodi, Ugo da Persico e Gerardo Patecchio. I loro versi sono stati pubblicati da Giovanni Contini in Poeti del Duecento, Napoli 1960.

Il medioevo e l’età comunale

«Nel Medioevo le malattie che colpivano i polli ed anche gli uomini (verrebbe da dire che l’influenza aviaria che allarmò il mondo nei primi anni del Duemila ha dei precedenti) erano talmente importanti da essere registrate con rilievo nelle Cronache del tempo: ne è un esempio quello che scrive fra’ Salimbene de Adam nel 1286. Dopo un inverno fuori del normale con un febbraio rigidissimo di neve, brina e gelo «si ingenerarono molti ascessi sia negli uomini che nelle galline...

Infatti a Cremona e a Piacenza e a Parma e a Reggio Emilia e in molte altre città e diocesi d’Italia ci fu una grande moria di uomini e di galline. E nella città di Cremona a una sola donna morirono nel giro di poco tempo quarantotto galline. E un certo medico fisico ne fece aprire alcune e trovò l’ascesso sul cuore delle galline. C’era infatti sulla punta del cuore di ogni gallina una piccola vescica. Fece aprire anche un uomo morto, e sul cuore [...] trovò la stessa cosa. In quei giorni, nel mese di maggio, maestro Giovannino fisico che abitava a Venezia, dove aveva il suo salario, mandò a dire con una lettera ai Reggiani suoi concittadini che non mangiassero ortaggi né uova, né carne di gallina per tutto il mese di maggio. E per questo avvenne che una gallina si vendeva per cinque denari piccoli. Ma alcune donne sagaci pensarono bene di dare da mangiare alle loro galline del marrubio pestato, ossia tritato, impastandolo con acqua e crusca e anche farina. E grazie a tale antidoto le bestie si liberavano e scampavano la morte».

Dalla Cronaca di Salimbene de Adam de Parma, trad. di B. Bossi, Bologna 1987, pp. 838-839.

In età comunale il mercato a Cremona si teneva in genere il venerdì ed il sabato, con ampliamenti in prossimità delle feste di Natale e di Pasqua nel centro cittadino; gli Statuti Viscontei e Sforzeschi ne delimitarono l’area tra le attuali vie Platina, largo Boccaccino, via Diaz, via Mazzini lato meridionale di piazza Roma, corso Stradivari, via Verdi, Monteverdi e Beltrami. Il Duomo era circondato da botteghe, costruite direttamente a ridosso delle mura della cattedrale (che saranno rimosse negli anni Trenta del secolo scorso, con un contrastato intervento urbanistico che iniziò nel 1863 e si concluse solo nel 1930, dando certamente respiro alle architetture romaniche ma cancellando anche una aspetto edilizio rappresentativo dell’intreccio tra vita quotidiana e vita religiosa che caratterizzò il medioevo ed i secoli successivi).(5) Alle botteghe nei giorni di mercato si aggiungevano banchi e carretti dei venditori ambulanti, che ostacolavano la circolazione. I punti di vendita erano raggruppati per generi merceologici, e da ciò derivò la denominazione delle porte del Duomo, che a lungo vennero chiamate porta Herbarum (delle erbe), porta Ficuum (dei fichi), (6) etc. Il commercio del pollame si svolgeva sul lato Est della cattedrale, e la porta che lì si apriva si chiamò porta Anserum (delle oche).

(5) Per quanto riguarda gli interventi urbanistici per liberare il Duomo dalle case e dalle botteghe che lo circondavano, vedi Remo Lanfranchi, Pro isolamento del Duomo di Cremona, Cremona 1913; vedi anche Luciano Roncai, Architettura 1814-1900, in Storia di Cremona. L’Ottocento, Bergamo 2005, pp. 329-330.

(6) Nel Cinquecento il mercato dei generi alimentari e di prima necessità del sabato venne trasferito nella piazza del Capitano (oggi Stradivari), e in tal modo si liberarono la piazza del Duomo e i portici del Comune dagli ambulanti che ne rendevano difficile il passaggio. Sul finire del secolo XVI, riqualificati gli edifici monumentali che si affacciavano sulla piazza, il Comune affittò alcune aree della piazza stessa per attività commerciali: a fruttaroli e prestinari lo spazio tra il Torrazzo e l’ingresso principale del Duomo, a venditori di riso quello verso il portico del palazzo comunale, ai formagiari lo spazio tra l’ingresso principale del Duomo e il Battistero (Monica Visioli, La piazza Maggiore dal Medioevo all’Età moderna in Il palazzo comunale di Cremona. L’edificio, la storia delle istituzioni, le collezioni, a cura di Andrea Foglia , Cremona 2006). Il mercato settimanale, per la vendita soprattutto dei prodotti della vicina campagna, caduto in disuso per molti anni, nel 1780 venne ripristinato nei giorni di mercoledì e di sabato, e la consuetudine è ancor oggi mantenuta. Come in passato in Piazza Grande si vendevano carni, polli e salumi; in Piazza Piccola (ora Stradivari) trovavano posto venditori di frutta e di verdura, insieme con merciai e rigattieri. Inoltre tutti i giorni della settimana si tenevano il mercato delle erbe lungo il fianco nord del Duomo e quello del pesce nella piazza tra il Battistero e il palazzo vescovile.

I pollaroli erano riuniti in corporazione con i venditori di frutta e di ortaggi e con i limonari, venditori di prodotti di importazione quali limoni e pesce salato proveniente da Genova e da Ferrara (7). L’obbligo di iscrizione era limitato agli abitanti di città perché quelli della campagna potevano vendere liberamente i loro prodotti.

Dal censimento del 1576, redatto in vista della scarsità di grano e della necessità di farne scorta, che per la prima volta teneva conto indistintamente di tutti gli abitanti di Cremona, veniamo a sapere che solo 3 sono i pollaroli (mentre 4 sono i limonari e 34 i fruttaroli).(8)

Le cronache cittadine del tempo riportano notizie di sontuosi banchetti nuziali approntati da cuochi francesi ed italiani per le nozze di giovani appartenenti a nobili famiglie cremonesi; tra le numerosissime portate di carne sono ricordate quelle a base di pollame, la cui varietà non può non colpire (sono citati pavoni, fagiani, capponi, anatre, piccioni, tacchini e pollastrelli).

Anche nei conventi si faceva largo impiego di uova e di pollo: lo attestano le relazioni delle visite pastorali condotte dal vescovo Speciano (1599-1606) (9) nelle quali molta attenzione è posta ai cibi consumati nei monasteri di città e di provincia. La carne di pollo si mangia nei giorni di domenica, lunedì, martedì e giovedì, insieme a quella di manzo e di vitello ed al salame. Anche le uova sono spesso utilizzate: ad esempio per la preparazione del "vivarolo" (vivarool in dialetto cremonese), una minestra delicata e leggera per malati, fatta con uova fresche sbattute con formaggio che, versate dentro a brodo caldo di pollo o di vitello, si rapprendono rompendosi a pezzetti. Oltre a riferire sui cibi in uso nei monasteri, le relazioni contengono anche suggerimenti alimentari, come ad esempio il consiglio di mangiare piccioni in estate e pollame in inverno.

Alla fine del Cinquecento inizia un periodo sfavorevole per l’agricoltura e l’allevamento nel Cremonese: l’eccessiva imposizione fiscale, la guerra franco-spagnola, le pestilenze e la carestia devastano il territorio: è lo scenario che fa da sfondo ai Promessi Sposi. La pace dei Pirenei, nel 1659, mette fine all’annosa guerra fra Francia e Spagna, e ridà fiato all’economia cremonese. La vita riprende più tranquilla, e riprendono, in occasione delle festività, i pranzi tradizionali nei quali polli, capponi, anatre, oche e tacchini hanno un posto di primo piano. Ciò non cambia neppure dopo una rivoluzione così "rivoluzionaria" come la Rivoluzione Francese, i cui principï arrivarono a Cremona con le armate napoleoniche e con la repubblica Cispadana, poi divenuta Cisalpina.

(7) Gli Statuti del 1627 sono conservati presso l’Archivio della Camera di commercio di Cremona in un elegante piccolo codice pergamenaceo, rilegato in pelle impressa, con capilettera ornati e una prima pagina in cui sono raffigurati con arte semplice e popolaresca i tre cardini della devozione degli iscritti: la Madonna del popolo, lo stemma della Spagna e S. Rocco, il loro protettore, presso la cui chiesetta, fuori porta Mosa, si recavano il 16 agosto in segno di omaggio. La corporazione nel 1776 venne soppressa, insieme a tutte le altre. (da Guida all’Archivio storico della Camera di commercio di Cremona, a cura di Carla Almansi Sabbioneta, Cremona 1998, pp. 93-95).

(8) Da Giovanni Vigo, Il volto economico della città, in Storia di Cremona. L’età degli Asburgo di Spagna (1535-1707), Cremona 2006, pp. 255-261. Dai dati contenuti nel Censimento annonario del 1576 i pollaroli a Cremona sono 3; negli «Estimati delle Arti cremonesi», censimenti effettuati negli anni che vanno dal 1620 al 1645, ricaviamo che pescatori e polaroli sono 9 nel 1620, 18 nel 1623, 20 nel 1627 e si riducono a soli 4 nel 1631, per effetto della pestilenza che si abbatté sulla città; salgono a 7 nel 1641 ma scendono a 5 nel 1645. Infine nell’Estimo del 1711 limonari e polaroli sono 17.

(9) Massimo Marcocchi, La riforma dei monasteri femminili a Cremona - Gli atti inediti della visita del vescovo Speciano (1599-1606), Cremona 1966.

Cinquecento e Seicento

Un fervente repubblicano – Lorenzo Manini, giornalista, tipografo ed editore, massone, assertore convinto dei principi della Rivoluzione francese ed animatore della vita culturale di Cremona – pubblica nel 1794 un curioso almanacco che contiene un ricettario (19) in cui si presentano ai cremonesi ricette desunte dalla cucina francese, con l’obiettivo di suggerire alla cucina locale, già ricca di una consolidata tradizione, un genere raffinato di elaborazioni culinarie, più adeguato alle esigenze dei tempi nuovi.

Il ricettario è chiaramente rivolto a famiglie benestanti che dispongono di personale di servizio, di una brava cuoca e, soprattutto, dei mezzi finanziari necessari per allestire pranzi ricchi e succulenti. Moltissime sono le ricette a base di pollame, precedute dalle indicazioni per spiumare, ripulire e svuotare piccioni, polli e tacchini. I grassi pollastri sono buoni in fricassea, alla graticola, allo spiedo, cotti alla marinara e con piselli. Per i polli d’India, cioè i tacchini, per le anatre e le oche si consiglia la cottura allo spiedo dopo aver lardellato per bene ogni animale.

Proprio nel capitolo dedicato al pollame sono frequenti i termini della gastronomia francese nell’indicare i vari modi di cottura: in tamburri, in matalotte, alla gibelotte, alla poële, in court bouillon, alla père douillet, alla daube, alla bourgeoise…(11)

(10) La cuoca cremonese che insegna a cucinare con facilità qualunque sorta di vivande, incluso nell’Almanacco per l’anno 1794 pubblicato a Cremona dal Manini. Fonte non dichiarata del ricettario è Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi, pubblicato a Torino nel 1766 che ebbe larga diffusione e numerose edizioni in Italia.

(11) Si tratta di termini della gastronomia francese, più o meno italianizzati: i tamburri erano dei contenitori di carta in cui mettere il pollo che veniva cotto alla graticola; la matalotte era una salsa con acciughe e capperi; gibelotte equivale a "fricassea", che è un modo di cucinare degli spezzatini di carne in tegame con un composto di uova sbattute e limone; la poële è la nostrana padella; court bouillon è un metodo di cottura con acqua, vino bianco o aceto, pepe e sale e a volte qualche verdura; la preparazione alla père douillet prevedeva che la carne venisse prima rosolata con burro e lardo, e proseguisse poi la cottura con l’aggiunta di vino bianco, sale e pepe, aromi (prezzemolo, timo ed alloro), carote, scalogno e chiodi di garofano: con il sugo di cottura filtrato e mescolato a farina ed a burro si otteneva la salsa di accompagnamento; la daube era una specialità provenzale: carne di manzo o di toro marinata nel vino rosso e cotta lentamente insieme a verdure ed aromi in uno speciale recipiente di terracotta chiuso con coperchio posto sulle brace, ma quel termine può essere usato sia per indicare la carne stufata sia il metodo di cottura; alla bourgeoise, cioè alla maniera cittadina.

Il Settecento

Il rinnovato interesse per l’economia e la statistica e per la scjenza in genere, tipico dell’Ottocento, ci ha fornito materiale dettagliato ed abbondante sugli usi alimentari cremonesi con notizie sul consumo delle carni degli animali da cortile.

Anche i frequenti cambiamenti politici ed il succedersi delle forme di governo che caratterizzano quel secolo (quelle ‘alla francese’ come la Repubblica cisalpina ed il Regno d’Italia, l’Imperial Regio governo austriaco ed il Regno sabaudo dopo l’Unità d’Italia), determinarono una particolare attenzione governativa sulle condizioni sociali ed economiche del territorio, attenzione che si concretò in ripetute e dettagliate indagini od inchieste ufficiali.

L’Ottocento

Giuseppe e Giovanni Sonsis (1807)

Ad esempio nei primi anni dell’Ottocento il Dipartimento dell’Alto Po formulò una serie di quesiti diretti ad acquisire elementi di conoscenza sull’ambiente, la flora e la fauna dei territori compresi nella nuova struttura amministrativa. Le risposte per il Cremonese furono preparate da Giuseppe Sonsis, medico fisico e chirurgo, professore di chimica farmaceutica e di storia naturale al liceo di Cremona.

Ad esse il figlio Giovanni, anch’egli medico, aggiunse un supplemento dedicato a Quadrupedi ed animali domestici; i loro studi, raccolti in un unico volume, furono pubblicati a Cremona nel 1807 (12).

In esso numerose sono le notizie curiose: come quella, ad esempio, della scarsa propensione dei Cremonesi a cibarsi della carne di coniglio, animale allevato più per diletto che per uso alimentare (ancora nella prima metà del XX sec., nel mercato dei polli che si teneva a Cremona nei pressi della piazza di S. Michele, un coniglio veniva regalato a chi faceva una spesa consistente, e nonostante ciò non sempre l’acquirente accettava questa ‘offerta speciale’).

A proposito degli uccelli domestici leggiamo che le oche erano raramente allevate nelle campagne cremonesi perché se lasciate libere di pascolare facevano danni alle vigne ed ai seminati; la loro carne era però assai apprezzata, e così il loro grasso, le uova e il fegato; le piume erano poi utilizzate per cuscini e trapunte con le quali riscaldarsi nell’inverno (viene indicato un altro uso insolito: quello delle ossa per fare fischietti da richiamo per la caccia). L’anatra muta veniva consumata solo se era giovane (in tal caso con la cottura la carne perdeva lo sgradevole odore di ‘muschio’ che la caratterizzava); nessun problema invece per l’anatra domestica, le cui carni venivano anche conservate sotto sale. La carne del pavone giovane era considerata squisita ed apprezzata al pari di quella del fagiano, del quale si registra qualche tentativo di allevamento utilizzando animali selvatici fuggiti dalle riserve di caccia.

Il pollo d’India, ossia il dindo o tacchino, veniva allevato in quantità nelle nostre campagne ad uso alimentare (i suoi pulcini venivano alimentati con ortiche), ma chi prevale decisamente per diffusione sono i galli (particolarmente apprezzata è la carne del gallo, divenuto cappone dopo la castratura, ed ingrassato con alimenti atti a renderne più delicato il sapore) e le galline, dei quali sono assai graditi sia le carni che le uova. È nota anche la gallina faraona (le cui carni alle nostre latitudini sono tenere e saporite, mentre in Africa sono dure ed insipide) ma essa viene allevata per semplice curiosità. Apprezzata è anche la carne del piccione, del quale si enumerano numerose razze (domestico, torraiolo, ricciuto, di barberia, a coda alzata...) che si incrociano tra loro producendo una grande varietà di forme e di colori.

(12) Giovanni Sonsis, Supplemento agli oggetti di storia naturale del Dipartimento dell’alto Po non compresi nei quesiti dati dalla Prefettura al professore di chimica farmaceutica e di storia naturale del liceo di Cremona [Giuseppe Sonsis], Cremona 1807, pp. 5-12.

Alessandro Tassani (1847)

Alessandro Tassani, che fu regio medico provinciale, pubblicò nel 1847 una ricerca sul territorio cremonese, ricca di notizie e di dati sulla popolazione, sull’agricoltura, l’industria e il commercio dei prodotti alimentari. «Un prodotto animale della massima importanza è quello fornito dagli animali da pollaio. Non havvi, direi quasi, casa o cascina in cui non si allevino alcuni capi di polli, galline, galli, piccioni, dindi, anitre, oche, sia per uso culinare, sia per farne traffico, sia per soddisfare a corrispondente tributo affittuario. In alcune epoche dell’anno, ad autunno inoltrato, per esempio, è tale la quantità del pollame ed i prezzi ne sono così modici, da rendere preferibile anche sotto il lato economico il consumo quotidiano di esso al consumo delle carni da macello: nell’autunno del 1843 lo spedale di Cremona ottenne dall’uso giornaliero della polleria in luogo delle carni di bue e di vitello un manifesto risparmio. Delle uova di alcuni tra gli animali da pollaio si fa un traffico che è assai proficuo specialmente nella stagione invernale» (13). Il passo qui richiamato è interessante perché conferma il persistere nell’Ottocento della prassi medioevale di utilizzare il pollame per pagare in tutto o in parte l’affitto di terreni o di fabbricati rurali.

Le malattie degli animali domestici erano seguite con attenzione, e le autorità di governo si preoccupavano di emanare provvedimenti per prevenirle, per contenerne la diffusione e ridurre gli effetti del contagio. Anche per questi aspetti viene in mente il medioevo e quanto testimoniato nelle Cronache di fra’ Salimbene de Adam.

(13) Alessandro Tassani, Saggio di topografia statistico-medica della Provincia di Cremona, Milano 1847, p. 28.

Le malattie degli animali della «bassa corte»

Nel 1842 sviluppossi tra gli animali di bassa corte una malattia epizootica, che infestò quasi tutta la provincia attaccando indistintamente qualsiasi capo di pollame (polli, galline, anitre, oche, dindi) e uccidendone un numero straordinario [...] Circa l’indole di siffatto malore [...] si credette comunemente in questa provincia che esso fosse inerente ad un principio di natura carboncolare e contagioso [...] dalle osservazioni fatte [...] sulle epizozie che dominarono nel pollame negli anni 1764, 1769, 1789 e 1824. I distretti ne’ quali il morbo menò maggiori stragi furono quelli di Soresina, Pizzighettone, Piadena, Sospiro e Pescarolo [...] Si può in via approssimativa calcolare, che un terzo e in qualche sito anche metà e più del pollame ne sia restato vittima.

E appunto nella mira di prevenire e diminuire le spiacevoli conseguenze di questa malattia nel caso di una facile sua ricomparsa [...] furono dall’eccelso I. R. Governo mediante apposite istruzioni, diramate nel 1843 a tutte le autorità comunali, raccomandati diversi mezzi igienici relativi alla tenuta e al regime de’ gallinacci e prescritte alcune misure valevoli a frenare la diffusione della malattia e, quando si fosse già sviluppata, ad impedire ogni sinistro accidente dipendente dall’uso delle carni del pollame infetto, le quali, oltre ad essere insipide potrebbero causare sopratutto a persone di debole ed infermiccia costituzione disturbi gastrici, tormini e diarree.

da A. Tassani, Saggio di topografia statistico-medica della Provincia di Cremona, op. cit., pp. 113 e 114.

Francesco Robolotti (1859)

Un altro medico, Francesco Robolotti, in suo libro del 1859 conferma che l’allevamento ed il commercio di pollame e di uova sono tanto comuni nel Cremonese che «alla vendita del numeroso pollame e delle uova [...] non si saprebbe assegnare un valore nemmeno per approssimazione» (14).

(14) Francesco Robolotti, Storia di Cremona e sua provincia, Cremona 1859, pp. 625-626.

 

Giacomo Marenghi (1882)

Dopo l’Unità d’Italia, il parlamento del nuovo Regno deliberò di svolgere una vasta ed accurata inchiesta agraria, nota come inchiesta Jacini, dal nome del senatore che la presiedette; a tale iniziativa si devono altre notizie dettagliate sull’ali mentazione degli abitanti della campagna a metà dell’Ottocento. I dati per il Cremonese furono raccolti dal dottor Giacomo Marenghi, che, nella sua qualità di medico, aggiunse anche osservazioni e consigli di carattere sanitario (15).

La carne di manzo bolliva in pentola due o tre volte l’anno, quella di pollo a Natale, Pasqua e il giorno della sagra, oppure per aiutare i convalescenti. Se il fittavolo lo permetteva, i contadini alle sue dipendenze allevavano volentieri anatre ed oche che, prima dell’inverno, venivano uccise, tagliate a pezzi, salate e riposte in olle di terracotta per utilizzarle al momento del bisogno nei mesi freddi.

Il Marenghi, forte della sua autorità di medico, rimproverava i contadini richiamandoli a mangiare – anziché gettarlo, come era abitudine diffusa – il sangue del maiale che avrebbe fatto bene alla salute, in quanto fattore plastico per queste popolazioni agricole, di cui tanta parte si immiserisce d’inedia. Li rimproverava anche perché avrebbero potuto, per il loro fabbisogno proteico, allevare conigli e cibarsene, mentre non lo facevano (già il Sonsis anni prima aveva notato questo singolare comportamento); la stessa carne di gatto, di cui se ne mantiene una quantità grande, avrebbe rappresentato una buona fonte di alimentazione ma ne hanno ribrezzo (16) (secondo la tradizione popolare i gatti non facevano alcun ribrezzo ai Vicentini, detti per l’appunto magnagàti, ed agli osti disonesti, che li cucinavano in salmì e li spacciavano per lepri...). (17)

(15) Giacomo Marenghi, Il Circondario di Cremona, in Atti della Giunta per l’inchiesta agraria, v. VI, t. II, Roma 1882, pp. 497-500 (L’alimentazione).

(16) Sulle resistenze a considerare come risorse alimentari i c.d. animali di compagnia e sui tabù alimentari in genere, di origine religiosa e non, si veda il saggio di Marvin Harris, Buono da mangiare, Einaudi, Saggi, Torino 1992.

(17) La pratica era tanto diffusa nella prima metà del secolo scorso da essere ironicamente ricordata dal grande scrittore lombardo Carlo Emilio Gadda quando enumera con corrosivo sarcasmo, in una lingua dottamente arcaica, le otto generazioni di felicità della felice Breanza (ma la situazione brianzola non era certamente diversa per questi aspetti da quella della Lombardia tutta, e quindi dal Cremonese); fra esse era compresa quella della caccia all’animale «che da noi li cacciatori grandi lo chiaman légora, et io lo chiamo, dato l’un caso o l’altro, o gatto ovverosìa coniglio». Infatti la légora, ossia la lepre, nonostante sia «onninamente fugitiva» e difficile da prendere, nei racconti dei cacciatori e nei piatti di selvaggina ammanniti nelle osterie si moltiplica «e dipoi come di légora si genera légora, quella medema doventa duo, e le duo quattro, e le quattro increscono...» ed è legittimo pensare «che la entrò con l’anima dentro nel corpo di messer lo micio gnào gnào...» C. E. Gadda, Viaggi di Gulliver, cioè del Gaddus. Alcune battute per il progettato libro, in Le bizze del capitano in congedo e altri racconti, ed. Piccola biblioteca Adelphi n. 119 Milano 1981, pp. 24-25.

 

Siamo ormai nel nuovo secolo, che inizia nel peggiore dei modi possibile: una guerra che per anni sconvolgerà l’Europa.

Il Novecento

Con essa arriva la paura della fame e l’esigenza di razionamento. Si interviene anche con l’educazione alimentare, suggerendo cibi più semplici ed economici e la riduzione della carne, in particolare quella bovina, da evitare perché dannosa alla salute o da consumare in quantità ridotta in aggiunta a patate o ad altre verdure, dando la preferenza a carni di animali domestici di più facile ed economico allevamento.

Anche a Cremona fioriscono le iniziative per sostenere l’impiego per usi alimentari di polli e di conigli, in modo da risparmiare i bovini necessari per i lavori agricoli o per l’alimentazione dei soldati al fronte. Il 16 ottobre 1916, su iniziativa della Sezione femminile zootecnica di Cremona, si inaugura solennemente l’Esposizione interprovinciale di coniglicoltura: una bella sfida, data la nota ostilità dei cremonesi per la carne di coniglio... Nelle sale dell’Esposizione i visitatori possono pranzare o cenare secondo menu che variano ogni giorno, ma nei quali il piatto forte è cucinato con carne di coniglio. Ecco il menu offerto il primo giorno: a mezzogiorno: Pastine in brodo, coniglio alessato, insalata e acetini, coniglio in camicia, patate fritte, frutta e formaggio; alle 19: Minestra di riso, coniglio alla Valsugana, spinaci al burro, frittura con limone, salsa verde, crema di cioccolato con biscotti.

Sempre nel 1916 un comitato patriottico cittadino pubblica un ricettario, il Manuale di 150 ricette di cucina di guerra (18) nel quale nelle poche ricette a base di carne la parte del leone... la fa il coniglio, del quale vengono presentate – con evidente scopo promozionale – ben 7 ricette.

(18) Manuale di 150 ricette di cucina di guerra, Cremona 1916; sta per uscirne una ristampa – con commento di Carla Bertinelli Spotti – che è pubblicata nella collana «il Bontà» a cura di Cremona-Fiere Spa.

La I Guerra Mondiale

Finita la guerra, riparte l’economia e si riprendono le abitudini alimentari di un tempo, che si affermano e si dimostrano tanto solide da superare indenni i grandi rivolgimenti politici e culturali del primo dopoguerra: invano i Futuristi, con la loro dichiarata volontà di rompere con il passato, tenteranno di portare la loro rivoluzione anche in cucina.

Il verbo della cucina futurista era arrivato a Cremona nel 1931 per impulso dell’onorevole Farinacci che aveva invitato Marinetti a tenere una conferenza sul futurismo l’11 maggio in città per conto dell’Istituto fascista di cultura di cui Farinacci era presidente; alla conferenza era seguito un banchetto all’albergo Roma, di 14 stravaganti portate, fra le quali era compreso un piatto a base di pollo: il Pollo Fiat, ideato da Diulgheroff (19), sta la preparazione: nella schiena di un pollo, prima lessato e successivamente arrostito, viene inserito un pugno di pallini di acciaio dolce per cuscinetti a sfera; sulla parte posteriore del volatile poi si cuce, in tre fette, una cresta di gallo cruda; il tutto viene messo in forno per 10 minuti e quando la carne ha ben assorbito il sapore dei pallini di acciaio dolce, allora il pollo viene servito in tavola, con contorno di panna montata. Se ne conosce anche una versione meno eroica, nella quale le sferette di acciaio sono sostituite da confetti sferici argentati ... La ricetta, insieme a quella del Fagiano futurista (arrostito, svuotato, tenuto un’ora a bagnomaria prima nel moscato di Siracusa, poi per un’altra ora nel latte, quindi riempito di mostarda di Cremona e di frutti canditi) è contenuta ne La cucina futurista, firmata dal supremo vate Marinetti e da Luigi Colombo, uno dei principali esponenti della pittura futurista, noto con lo pseudonimo di Fillia (20).

Ma sul fronte gastronomico la battaglia promossa dai futuristi contro la cucina conservatrice e passatista (della quale era espressione la pastasciutta, che era stata condannata senza appello) sarà irrimediabilmente persa. Dimenticate le bizzarrie futuriste, i polli continuarono ad essere allevati per finire in pentola ed essere cucinati nei modi tradizionali, senza "pallini di acciaio dolce" ed altre stranezze. I pallini sulle tavole cremonesi arriveranno solo per errore, nei piatti di selvaggina, quando qualche commensale avrà la sorpresa di sentire sotto ai denti la durezza un po’ cedevole del piombo da caccia sfuggito ai controlli degli addetti alla cucina nella fase di preparazione dei fagiani o delle lepri...

(19) Nicolaj Diulgheroff, architetto e designer nato nel 1901 a Kinderstil in Bulgaria; dopo aver frequentato le prestigiose scuole d’arte di Vienna, Dresda ed il Bauhaus di Weimar, completò gli studi artistici a Torino, dove era arrivato nel 1926 attratto anche dal movimento Futurista, al quale subito aderì. Si distinse nel campo della pubblicità, della progettazione di mobili e di edifici (fra i quali, nel 1931, quello del tempio della cucina futurista, la Taverna del Santopalato, progetto ispirato ad un sommergibile); fu attivo in Italia fino al 1982, anno della sua morte.

(20) Filippo Tomaso Marinetti - Fillia, La cucina futurista, ed. Sonzogno, Milano 1932, alla p. 101 ed alla p. 229.

Il Futurismo

Ma ben altri nemici hanno i polli, e chi li alleva. Il pollaio, fonte di benessere e di ricchezza per chi lo possedeva, attirava spesso le attenzioni di malintenzionati: non solo di animali selvatici (volpi, martore, faine e donnole) che compivano autentiche stragi (21), ma anche dei ladri. Balordi, o ligèra per usare una terminologia lombarda, organizzavano vere e proprie spedizioni notturne. Eccone una, che si svolge in parte in barca lungo il Po e nei pioppeti del Cremonese, raccontata con linguaggio un po’ sgrammaticato ma molto vivo direttamente da uno dei protagonisti.

(21) È infondata la credenza popolare (che ricorre ad esempio in una delle testimonianze riportate al successivo par. 2.1) secondo la quale la faina si nutre principalmente, o addirittura esclusivamente, del sangue delle sue prede; in realtà quando la faina caccia in luoghi dove le prede si trovano nell’impossibilità di fuggire, come accade normalmente nei pollai, spesso uccide un numero di animali molto maggiore del suo fabbisogno immediato di cibo; questo comportamento, definito surplus killing, ha una forte componente istintiva, legata alla natura di predatore della faina.

I rubagalline

La grande caccia dei pennuti

[...] Siamo alla settimana prima di Natale del 1921 viene a Porta Po il cognato di un facchino di Porta Po e parlano fra loro poi mi chiamano me e mi dicono tu che sai guidare la barca [...] senti vi è un affare da fare è una passeggiata al chiaro di luna e si torna a casa con la merce per passare le feste ci stai? sai qui non si guadagna da vivere e poi è una casa in mezzo a dei boschi non avrai paura [...] noi si parte si fa un miglio di strada e poi si vede un grosso cascinale lontano circa duecento metri vi è una grossa pianta di noci all’ora ci fermiamo per fare i nostri calcoli e si rimane d’accordo così, mio padre e il suo compagno devono rimanere li sotto la pianta me mio fratello andiamo in ispessione perché siamo armati e siamo i più giovani se vi è il bottino uno rimane e l’altro viene a chiamare il terzo che sarebbe il piccador si prende i sacchi e s’incomincia la grande caccia dei pennuti e se ne fa ben cinque sacchi nell’affare di due ore li portiamo sotto la pianta e di la si fa il ritorno verso la barca ma dobbiamo ripassare per il paese. E qui è il brutto si cammina in fila indiana uno avanti in colonna i tre vecchi in mezzo e noi due armati uno avanti e uno dietro quando siamo alle prime case sembra un cimitero ma invece vi è chi veglia e nella notte si sente un grido dove i vecchi abbandonano il suo carico e si mettono a gambe all’ora per intimorire si spara un colpo al’aria e torna di nuovo silenzio però si vede qualche lume a certe finestre noi si va verso il bosco e la siamo sicuri si aspetta qualche ora e poi ci mettiamo d’accordo così, mio padre e l’altro vecchio devono portare alla barca il mio carico e quello di mio fratello ...

da Orlando P.: Descrizione della mia Vita in Danilo Montaldi, Autobiografie della leggera, Einaudi, Gli struzzi 32, Torino 1972, pp. 100 e segg.

Quella dei "rubagalline" (il termine è ora usato in senso dispregiativo per indicare persone disoneste che vivono di espedienti e di furti di poco conto) era una professione tanto diffusa nei secoli passati da aver dato origine ad un cognome abbastanza comune in Lombardia: quello di «Fumagalli», che secondo il linguista Gian Luigi Beccaria deriverebbe dalla pratica di stordire i polli col fumo di paglia umida o di altro per poterli rubare senza che facessero rumore (22).

(22) Gian Luigi Beccaria, Tra le pieghe delle parole - lingua storia cultura, Einaudi, Saggi 884, Torino 2007, p. 123.

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Si afferma in Italia il Fascismo, che con la violenza non repressa (e talora protetta) dalle c.d. forze dell’ordine stronca anche fisicamente avversari ed oppositori e conquista il potere. Gli italiani stanno a guardare, salvo poche eccezioni, e poi salgono sul carro del vincitore, mostrandosi generalmente soddisfatti del nuovo regime ed orgogliosi del ruolo dell’Italia nel mondo. E con soddisfazione, orgoglio (e molta leggerezza) si fanno trascinare in una nuova guerra mondiale. Sarà una guerra ancora più tragica e distruttiva della prima, perché colpirà direttamente con i bombardamenti tutto il Paese, mentre le truppe percorreranno combattendo l’Italia, spostandosi da Sud a Nord. Compaiono di nuovo i razionamenti e le tessere annonarie (ma assumerà grande rilievo anche il commercio clandestino, a prezzi elevatissimi, di alimenti sottoposti a razionamento: la c.d. borsa nera). Si ripetono le campagne che sollecitano la popolazione alla sobrietà alimentare ed indirizzano i consumi verso le carni "alternative" dei polli e dei conigli; si piantano "orti di guerra" nelle aiuole stradali e nei giardini pubblici e si costruiscono gabbie per polli e conigli da allevare nei cortili e sui balconi cittadini. Col perdurare della guerra e con il suo radicarsi sul suolo italiano anche tutto questo verrà meno, e per molti sarà fame vera. Solo nelle campagne, soprattutto in quelle del Nord che non si trasformano in campi di battaglia, si vive con minor disagio: molte famiglie lasciano le città sia per sfuggire ai bombardamenti sia per avere la possibilità di approvvigionarsi di cibo direttamente alla fonte, sfuggendo alle restrizioni dei razionamenti.

Il fascismo e la seconda Guerra Mondiale

Nell’economia rurale delle campagne del Cremonese, come del resto in quella di tutto il territorio lombardo, anche durante la guerra era rimasta un’area riservata alle donne: l’allevamento dei polli e dei conigli era affare loro, e a loro spettavano i proventi dei piccoli commerci che si sviluppavano intorno a queste attività minori della cascina. Il commercio era in genere svolto da ambulanti, famosi quelli di Vescovato, che si spostavano di corte in corte portando in giro (spesso su biciclette con grossi portapacchi carichi di sporte e di fagotti) la loro mercanzia e che acquistavano uova e pelli di coniglio, pagando in denaro o realizzando baratti con modeste stoffe ed articoli di merceria. Le uova avevano una loro destinazione ed un loro proprio mercato (e talora la merce di scambio era un altro genere commestibile: l’olio d’oliva, merce rara in tempi di comunicazioni difficili con le aree di produzione) e così le pelli di coniglio, destinate sia alla pellicceria di lusso o pseudolusso (quella che trasformava il coniglio nostrano in un assai più esotico lapin) od elementare ed artigianale, che applicava le pelli rivoltate con il pelo all’interno ai due lati del manubrio della bicicletta, sotto forma di rozzi ma caldissimi imbuti che, includendo anche le leve dei freni, consentivano al ciclista – spesso lo stesso "mercantino" – di affrontare con le mani ben protette i rigori del gelo. Il commercio delle pelli di coniglio era spesso abbinato a quello degli stracci, ed era praticato anche dagli zingari, da solo od unitamente all’attività di riparazione delle pentole in rame della quale erano specialisti.

Questo genere di commerci, farm to farm piuttosto che door to door, proseguirà praticamente immutato anche nel dopoguerra; alle biciclette subentreranno dapprima vespe o lambrette, poi più comodi camioncini; ma sarà proprio il diffondersi dei mezzi motorizzati anche fra le famiglie contadine, unitamente alla facilità di comunicazione ed al proliferare dei punti vendita, una delle cause principali di estinzione del commercio ambulante.

Polli, conigli e piccoli commerci

Arriva la Liberazione, con l’apporto determinante delle truppe alleate ma con il contributo anche delle forze partigiane. Seguono poi gli anni duri della ricostruzione, ed arriva la ripresa economica, i c.d. anni del boom. Anche le attività familiari e contadine diventano oggetto di produzione industriale e fanno la loro comparsa anche nel cremonese gli allevamenti di polli in batteria: strani capannoni illuminati a giorno anche di notte, dove si racconta ci sia perfino la musica perché così le galline fanno più uova... Compaiono anche, sia pure timidamente, i primi supermercati.

Quasi per reazione a questo mondo moderno, all’americana, nel quale si appiattiscono fino quasi a sparire le particolarità distintive dei singoli territori, si crea una nuova attenzione verso il cibo genuino ed i piatti tradizionali. Alta espressione di questo nuovo interesse culturale è la fondazione, a Milano nel 1953, dell’Accademia italiana della cucina, una cui delegazione verrà costituita a Cremona nel 1964.

È del 1958 l’inchiesta televisiva dedicata da Mario Soldati Alla ricerca dei cibi genuini; qualche anno dopo si inaugura la catena de I ristoranti del Buon ricordo (dal 1984 sostenuti anche dal TCI), alla quale aderisce il Ristorante Italia di Torre Picenardi, l’unico del Cremonese (con un suo piatto celebre: il petto di faraona ripieno allo Stradivari). Nascono nuovi miti, come il "pollo ruspante" e la "trattoria dei camionisti", assurti a simbolo dell’assoluta genuinità.

In tempi più recenti la politica delle autorità locali (Comuni e CCIAA) si è fatta particolarmente attenta alla valorizzazione del territorio anche attraverso la promozione di prodotti alimentari tipici e l’incentivazione del turismo gastronomico. Fra le iniziative di maggior rilievo sono le rassegne gastronomiche, una delle quali – la VII, che si è svolta nel 2001 – è stata dedicata proprio agli Animali da cortile. Anche gli operatori del settore turistico ed agroalimentare nel 2003 si sono riuniti in un’associazione, la Strada del gusto cremonese, cui aderiscono più di 70 soci (ristoranti, agriturismi, aziende agricole, latterie, macellerie, caseifici, salumifici), che sviluppa interessanti iniziative promozionali.

La ricostruzione ed il boom economico

L’allevamento degli animali da cortile continua ad essere una pratica assai diffusa nel Cremonese, ed una delle risorse importanti del settore agroalimentare. Alle specie tradizionali altre se ne sono aggiunte: quaglie e fagiani, che una volta vivevano in libertà, sono ora allevati in cattività e preparati per il consumo alimentare (particolarmente pregiate sono anche le uova di quaglia) o destinati a ripopolare le riserve di caccia (dove faranno ben presto una misera fine sotto le doppiette degli irriducibili cacciatori che si illudono di cacciare astuti selvatici mentre in realtà si trovano di fronte ad una sorta di polli allevati in batteria, che hanno completamente dimenticato le astuzie necessarie per sopravvivere in mezzo ad una natura ostile). Sono una decina gli allevamenti del Cremonese che trattano queste specie (23). Ma una nota di esotismo si è aggiunta in anni recenti, quando – sull’onda di una moda internazionale – hanno fatto la loro apparizione gli allevamenti di struzzi (7 nel Cremonese, e 500 circa sono complessivamente gli struzzi allevati, la cui carne è particolarmente apprezzata dai gourmet più raffinati). In totale sono circa 200 gli allevamenti avicoli (che allevano anatre, colombi e piccioni, fagiani, faraone, oche, polli, quaglie, struzzi e tacchini), piccoli e grandi; alcuni lavorano in modo integrato, utilizzando come mangime il mais o la soia prodotti dalle stessa azienda agricola, e completano il ciclo della lavorazione con la macellazione ed il confezionamento per la vendita. Oltre 4 milioni sono mediamente gli animali delle varie specie presenti negli allevamenti.

Pochi invece gli allevamenti di conigli – una quindicina in tutto – ed in genere di dimensioni assai modeste, più vicini all’attività famigliare di produzione per l’autoconsumo che a quella industriale; l’unico di un certo rilievo è a Spinadesco: si tratta di un centro di selezione genetica dove vengono selezionate femmine riproduttrici destinate agli allevamenti da produzione per l’ingrasso, mentre i maschi sono destinati al macello ed alla confezione per il consumo.

(23) Per questo dato e per quelli che seguono ringrazio il dott. Carlo Madoglio, responsabile U.O. Anagrafi ed Integrazione Flussi Informativi del Dipartimento di Prevenzione Veterinario presso l’ASL della Provincia di Cremona.

Gli allevamenti oggi