Orti di campagna
L’economia agricola del passato (un passato che è durato secoli, arrivando con lentissime modifiche fino alla prima metà del Novecento) era fondata sull’autosufficienza, sia per motivi connessi alla difficoltà di circolazione delle merci sia per la scarsa disponibilità di denaro per acquistarle; si doveva quindi produrre, oltre che per il mercato, anche tutto quello che serviva per nutrire la famiglia contadina. | ||||||||||||||||||||||||||||
Nelle campagne cremonesi ogni podere, sia pure di piccole dimensioni, oltre all’aratorio (terreno da arare e da destinare alle colture principali), comprendeva quindi anche un vigneto e l’orto. Gli ortaggi integravano e qualche volta erano quasi l’unica fonte di alimentazione dei contadini. Dai rilevamenti del catasto di Carlo V (risalenti al secolo XVI) risulta che nel Cremonese la superficie ricoperta dall’agricoltura (corrispondente cioè all’aratorio) è di pertiche 8.433, mentre considerando anche le altre colture la superficie coltivata sale a 14.078 pertiche. Un preciso censimento degli ortaggi coltivati nel Cremonese ci è fornito da Giuseppe Sonsis, che fu incaricato nel 1807 di predisporre la risposta al questionario della Prefettura napoleonica, interessata a conoscere le caratteristiche fisiche ed economiche del Dipartimento dell’Alto Po di cui Cremona era il capoluogo. Egli elenca con grande accuratezza gli «erbaggi» che si trovano nel territorio, indicandone sia il nome botanico che quello «volgare» usato dalla gente: «prezzemolo degli orti, sedano, aneto o finocchio dolce con radice e seme, sparago ortense, agli e cipolle dei prati e degli orti, bietola rossa e bianca, cavoli, navoni e rape che si coltivano negli orti e nei campi, peperoni di varie specie, cicoree ortensi e campestri, raffano rusticano comune negli orti [cren], cavolo selvatico, poponi che si coltivano per il frutto e per i semi, zucca di cui vi sono moltissime specie e cetrioli, carota ortense, scalogna coltivata negli orti, tre specie di girasoli il cui seme è grato ai pappagalli, la specie di radice tuberosa si mangia cotta sotto il falso nome di tartufo bianco, e pero di terra, luppolo, tarassaco dente di leone, lattughe di molte specie, bassilico di varie specie coltivate negli orti. Erba e seme aromatico, mente ortensi e campestri, miagro erba chiamata lanser dai contadini che la mangiano cotta in autunno, maggiorana ortense e silvestre, pisello che coltivasi negli orti; raffani, ramolacci e ravanelli coltivati negli orti e nei campi; varie specie di Fagiuoli e di Dolici volubili e ritti, di baccello schiacciato, e di cilindrico, di corto e di lungo si coltivano negli orti e nei campi; rammerino [rosmarino] negl’orti; scorzanera: si coltiva negl’orti per la radice; senape sativa; ...il Solano Melanzana o Petonciano, il Solano Patata, e i Pomi d’oro si coltivano agli usi econom. negl’orti; lo spinagio coltivato negl’orti per tutto l’anno; timo serpillo silvestre e ortense.» Qualche decennio dopo il dottor Alessandro Tassani, nel suo Saggio di topografia statistico-medica scritto nel 1844 prima di trasferirsi da Cremona a Como e pubblicato a Milano nel 1847, descrivendo i prodotti del suolo della provincia cremonese «favorita ... dalla benignità del suo cielo, dalla naturale ubertosità del terreno, e dai benefici di un’estesa irrigazione...» prende in esame anche quelli orticoli: «le zucche, i cetrioli, le melansane, i pomidoro, i peperoni... le verzure mangereccie di maggior uso sono gli spinacci, gli asparagi, i carcioffi, le cicorie, le lattuche, il sedano, il prezzemolo, il rafano, volgarmente ramolaccio o ravanello secondo che la radice è grossa o piccola, le carote, l’armoraccio [cren], le rape, le barbabietole, le pastinache, l’aglio, le cipolle, il porro, il cavolo verzotto o verza, il cavolo cappuccio, il cavolo fiore, i cavoli broccoli, il cardo, il finocchio, la lattuga, la cicoria, l’indivia; e fra i legumi oltre la fava annoveransi i piselli ed i fagioli, i lupini, le lenti, i ceci; anche il pomo di terra o patata si coltiva oramai con una certa estensione, più nelle campagne aperte che negli orti...». | L’ORTO, GRANDE RISORSA ALIMENTARE PER LE FAMIGLIE CONTADINE Si coltivavano insalata, radicchio da taglio, fagiolini, fagioli, piselli, pomodori, sedano, carote e prezzemolo, ma anche le patate che poi si mettevano via per mangiarle d’inverno insieme ai fagioli, seccati durante l’estate, dopo la raccolta, e alle verze che sotto la neve resistevano e anzi erano più buone dopo le ghiacciate notturne. Non si vendeva la verdura nelle botteghe degli ortolani, come si fa oggi, ma chi ne produceva tanta nel suo orto andava in giro con la carriola e vendeva le verze intere, i radicchi a mazzetti, l’insalata a gambe. Per conservarla quando la produzione era abbondante si mettevano cipolle, peperoni, carote ed altro sotto aceto nei barattoli di vetro. Il papà diceva sempre che non bisognava seminare il 7, il 17, e il 27 di ogni mese perché poi non cresceva bene niente: un giorno buono era sempre il venerdì. I fagioli insieme alla zucca e alle patate facevano molto bene alla salute e la mamma ne metteva sempre nella minestra perché diceva che ci aiutavano a crescere forti e robusti. Ricordo che metteva via i peperoni nell’aceto del nostro vino e ogni tanto ripeteva il proverbio che aveva sentito ancora da bambina declamare dai suoi famigliari: «l’òort l’è’l nimàal mòort» l’orto, cioè, come il maiale, dà da mangiare ai contadini per tutto l’anno. testimonianza di Iris Manfredini, nata nel 1939 a Costa S. Abramo * Il padrone della cascina assegnava la terra per l’orto ad ogni famiglia di contadini e ricordo che qualcuno vi piantava qualche albero di susine, di pesche e anche qualche vite. Finito il lavoro dei campi, sul mezzogiorno e la sera, gli uomini lavoravano il loro orto, lo irrigavano se c’era un fosso vicino o aspettavano la pioggia. Per concimarlo andavano alla «pila» del letame. Non c’erano date fisse per la semina, si seguiva la luna... Ricordo che in inverno c’era abbondanza di verze, sedano e rape, mentre in primavera di insalata, radicchi, cipollotti, piselli, biete coste, fagiolini, carote, rapanelli e prezzemolo. Durante l’estate si producevano fagioli, cetrioli, pomodori, basilico, insalate ed invece in autunno patate e zucche. Solo dopo la guerra, negli anni Cinquanta, negli orti del mio paese sono comparsi spinaci, zucchine, melanzane, finocchi e cavolfiore. testimonianza di Emilia Chiappari Donelli, nata nel 1924 a Malagnino | |||||||||||||||||||||||||||
Di alcuni ortaggi sono anche indicate le quantità prodotte nel Cremonese secondo dati riferiti agli anni dal 1839 al 1845:
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Un altro quadro assai preciso dell’orticoltura del Cremonese è contenuto negli atti dell’Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola in Italia, nota come Inchiesta Jacini, dal nome di un cremonese, il Senatore del Regno conte Stefano Jacini che presiedette la commissione parlamentare incaricata di realizzare l’inchiesta (una delle tante avviate dal Parlamento italiano nel 1877 con l’obiettivo di analizzare i settori vitali dell’economia e della società del nuovo Regno d’Italia). L’inchiesta agraria si concluse nel 1882 e fra i suoi atti sono compresi anche i dati raccolti dal dottor Giacomo Marenghi che, sia pur espressamente riferiti alle sole località in cui esercitava la professione di medico (il comune di Castelverde e quello di Tredossi, allora separati), sono certamente rappresentativi di una situazione diffusa in tutta la provincia: «Le leguminose, fagioli, piselli, lenticchie, lupini ecc. vengono coltivati nelle ortaglie... Sono da associarsi alle leguminose anzidette i cavoli, i pomi d’oro, le patate, le rape, piante tutte ortensi. E qui avvertiamo subito che l’orticoltura è diretta unicamente ai bisogni di un mercato vicino e non ad offrire materia d’esportazione... Chi ha l’orto ha anche alberi da frutto che conserva per l’inverno». Ma oltre che negli orti di casa le verdure venivano coltivate anche in pieno campo e costituivano oggetto di un’attività agricola specifica, fonte di reddito non trascurabile. È questa la situazione di oggi, che ha visto alcuni territori specializzarsi in particolari colture orticole, sfruttando al meglio le caratteristiche del terreno, il sistema irriguo e le condizioni climatiche. E così al confine del Cremasco, grazie ai terreni soffici e leggermente sabbiosi, facilmente irrigati per la disponibilità di acque di risorgiva, si è particolarmente sviluppata la coltivazione della scorzonera, ormai nota come «radice di Soncino»; ma oltre che nel territorio di Soncino la produzione si estende anche nella fascia a cavallo del fiume Oglio da Fiesco a Soresina a ovest, fino a Lograto, Manerbio, Brandico e Dello ad est. Il Cremonese si caratterizza per la produzione di piselli, fagiolini, fagioli borlotti e mais dolce. Quanto ai fagioli, si tratta di un prodotto storicamente legato a Cremona, prodotto che, anzi, caratterizzava la città ed i suoi abitanti. Per secoli i cremonesi furono scherzosamente chiamati mangiafagioli, non solo perché prima dell’introduzione del mais i fagioli furono uno dei piatti base nell’alimentazione (e proprio ad una cremonese, Claritia da Cremona, viene attribuito da Ortensio Landi il merito di aver inventato la gustosa ricetta dei fagioli lessati e conditi con olio, aceto, pepe e sale come nelle insalate moderne) ma anche perché i fagioli erano uno dei prodotti orticoli maggiormente diffusi nelle colture locali. Numerose sono le testimonianze letterarie di scrittori del Cinquecento (Alessandro Tassoni e Teofilo Folengo, fra i più importanti) dalle quali risulta che Cremona prima ancora che per la mostarda era famosa per i suoi fagioli, e lo storico locale Giuseppe Bresciani, nel suo «Diario curioso...» di quello che avveniva in città nel Seicento, ricorda che il 25 Aprile di ogni anno nella chiesa di S.Tommaso in Cremona, si benedivano i fagioli da seminare negli orti. Il Casalasco è l’area a vocazione orticola per eccellenza di tutta la provincia: cocomeri, meloni, zucche, insalate, patate e pomidori. All’inizio del Novecento la Camera di Commercio, nelle sue periodiche relazioni economiche sulle risorse della provincia, sottolineava l’importanza della produzione di cocomeri e meloni incentrata a Casalmaggiore riferendo che nel 1913 la coltivazione di questi frutti occupava 400 ettari. In tempi a noi più vicini si è affermata la produzione del pomodoro: il Consorzio Casalasco del pomodoro, in continua espansione, è diventato oggi protagonista e leader del settore in campo nazionale ed internazionale. | Nelle cascine vivevano molte famiglie di contadini e ognuna aveva diritto, per contratto, ad avere un orto di circa metri 8x8, confinante con la cascina, possibilmente vicino ad un corso d’acqua, separato dagli altri orti con recinti di legno su cui si attorcigliava il luppolo che in primavera forniva tanti buoni «luertiis» per le frittate e le minestre di casa. Lo lavoravano gli uomini: in autunno vangavano il terreno e piantavano aglio, cipolle e scalogne. L’inverno la terra riposava; c’erano però verze e «ravele» (radici), salvia e rosmarino, protetti da carta e paglia dai rigori delle gelate notturne. Anche la scarola era legata e protetta. In Febbraio si procedeva alla semina delle patate, dell’insalata lattuga, di spinaci, carote, piselli: il mio papà ne aveva di tre qualità che chiamava «nano, metà rama, e telefono» secondo l’altezza cui arrivavano. Qualche contadino piantava anche gli asparagi, in un terreno sabbioso e ben letamato, ma siccome rendevano poco, era più che altro un lusso. Solo a Maggio del secondo anno cominciavano a spuntare. In Marzo c’era la semina dei fagioli dell’occhio, di Spagna e dei borlotti, del prezzemolo, dei fagiolini, del sedano, di erbette e biete coste. In Aprile era tempo di semina per zucche, zucchini, cetrioli (delicatissimi: se veniva un po’ di nebbia li faceva morire), meloni, insalata, rape bianche e rosse, basilico, catalogna. Il Venerdì di Pasqua si seminava il prezzemolo, in genere tutte le semine avvenivano di Venerdì e quando c’era luna vecchia perché si diceva che se no le verdure «andavano in gallo». In Maggio si pensava a pomodori e peperoni bianchi, a metà Luglio era tempo per il radicchio rosso (prima seminato e poi trapiantato), i cavolfiori, le verze quarantine già pronte da mangiare agli inizi di Settembre. Il mio papà era un bravissimo contadino e dedicava molte cure al suo orto, lo concimava con stallatico dell’anno prima mescolato con un po’ di terra. Se c’era qualche bestiolina l’ho visto usare il DDT, dopo la guerra però, e verderame sulle patate prima della fioritura. Lasciava a mollo nell’acqua fredda dell’aglio pestato finemente e formava così un disinfettante che, spruzzato sul terreno, eliminava i moscerini neri che si formano quando l’insalata è ancora tenerina. Prima di piantare i pomodori ricordo che metteva sul terreno un po’ di potassa (solfato di potassio): il raccolto era strepitoso. Stava anche molto attento al sistema della rotazione per evitare che il terreno si impoverisse troppo e non si diffondessero le malattie perché alcune verdure danno azoto, altre lo assorbono. testimonianza di Bruna, nata nel 1949 a Scandolara Ravara | |||||||||||||||||||||||||||
LA SCORZONERA Con questo nome si designano lunghe e robuste radici a fittone, di buccia scura, di polpa bianca e di sapore leggermente amaro, che si estraggono dal terreno in autunno e si consumano cotte durante l’inverno; anche le foglie possono essere usate per l’alimentazione ed hanno un gusto simile a quello della cicoria. Sono ricche di minerali (ferro, fosforo, magnesio e sodio) e di una sostanza particolare, l’inulina, con proprietà disintossicanti per fegato ed intestino. Presenti negli orti fin dai tempi più antichi sono note anche col nome di «radici» tout-court (appellativo al quale si è recentemente oggi aggiunta l’indicazione geografica «di Soncino» per merito della diffusione della loro coltura su larga scala nel territorio soncinese, risalente ai primi anni del Novecento, su iniziativa soprattutto delle famiglie Zuccotti e Grazioli. Per ricordare e celebrare questo prodotto tipico, la Proloco di Soncino organizza dal 1967 la Sagra delle radici che da qualche tempo si festeggia la IV domenica di Ottobre (in coincidenza con l’inizio della la campagna di vendita del prodotto) con distribuzione di vino novello, radici e salsicce. Le radici si gustano lessate, gratinate, sott’olio, in bagna cauda e con le acciughe. Lasciate macerare crude a tocchi per due o tre mesi in una buona grappa le conferiscono un sapore inconfondibile: per amalgamare il gusto è bene aggiungere anche un po’ di miele. È un gustoso depurativo naturale anche il vino dolce con pezzetti di radici crude, scaldato per alcune ore fino ad un massimo di 90° e bevuto freddo. In tempo di guerra, quando era difficilissimo trovare il vero caffè, le radici essiccate, tostate al forno e sbriciolate venivano fatte bollire nell’acqua o nel latte e davano l’illusione di bere autentico caffè. Oggi le radici essiccate accompagnano aperitivi, tostate servono per preparare infusi di gusto particolare che ricorda il caffè. Un estimatore della scorzonera è lo scrittore Aldo Buzzi che, nel ricordare come nei Paesi anglosassoni la scorzonera sia conosciuta come oyster-plant, cioè ostrica vegetale, sostiene che si tratta di un cibo prelibato, apprezzato anche da Kafka, di gusti vegetariani, che ricorda nei suoi Diari «una cena di San Silvestro, modesta ma non priva di finezza, «con scorzonera e spinaci, accompagnati da un quarto di Xeres». Ecco come ne parla: La parola scorzonera non ha niente a che vedere con scorza nera, perché anzi la migliore qualità è di scorza bianca. Nel Dizionario Garzanti della lingua italiana leggo che deriva dal catalano escurçonera, da escurçó, vipera, perchè la pianta fu usata in Spagna contro il morso delle vipere. Ma in Vecchia Milano in cucina di Ottorina Perna Bozzi, leggo un’ipotesi più attraente: che cioè scorzonera derivi dal milanese scolcionera, che a sua volta deriverebbe da scolciòn, ciuffo di capelli corti, radi e irti come appunto le foglie della scorzonera. Se così fosse meglio sarebbe dire anche in italiano scolcionera. Di solito la si fa al burro. Se ne puliscono le radici raschiandole e lasciando l’inizio delle foglie (tre o quattro centimetri). Si taglia a pezzi di circa otto centimetri, che si immergono man mano in acqua acidulata con limone o aceto perchè non anneriscano; si butta poi in acqua bollente (in cui sono stati mescolati un cucchiaio raso di farina e due di aceto per litro d’acqua, e il sale necessario) e si fa sobbollire, coperta, finché è diventata tenera (si schiaccia premendola fra due dita). Allora si scola e si fa rosolare nel burro, aggiustandola di sale e insaporendola con pepe nero. E’ veramente l’ostrica delle verdure , e come tutte le ostriche richiede lo champagne. Cibi squisiti come la scolcionera al burro bisogna cercare di mangiarli in condizioni ideali: stanza ben esposta, a sud, e ben illuminata per la sera ...; pavimento caldo,cioè di legno ...; tavolo grande (anche se siamo soli), coperto da una tovaglia bianchissima; sedie imbottite con braccioli imbottiti ...; commensali non in numero maggiore a cinque ...; profumi ridotti al minimo ... Aldo Buzzi, L’uovo alla Kok, Adelphi ed., 1979, pp. 87-91 | ||||||||||||||||||||||||||||