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Orti di città

Nella Cremona medioevale il suolo racchiuso all’interno della cinta di mura non era interamente edificato e molti erano gli spazi lasciati a verde, spazi che – specialmente nei secoli successivi – verranno trasformati in curatissimi giardini, a decoro dei palazzi della nobiltà o della ricca borghesia.

Ampli orti e broli si sviluppavano a ridosso dei monasteri e dei conventi, in particolare in una zona circoscritta, nata da una antica lottizzazione risalente al XIII secolo, e chiamata «il prato del vescovo»: era questo l’unico polmone verde entro le mura della città coltivato a orto. Qualche testimonianza di ciò è costituita da alcuni orti sopravvissuti nei secoli e che ancora si coltivano nella zona compresa fra la via Bonomelli e la via 11 febbraio; ma per il passato preziose indicazioni sono contenute dai documenti custoditi negli archivi cittadini: nel Registro dei «fictalicii» conservato nell’archivio vescovile è registrato ad esempio l’affitto di 13 libre che per sei mesi, nel 1360, Giovannino de Ossio, ortolano, paga al vescovo per un orto o brolo, con colombaia. E la stessa cifra viene pagata nel 1372 da un certo Andriolo de Lobina, della vicinia di borgo San Raffaele, per 6 pertiche di terreno coltivato ad orto con pergolato d’uva, frutteto e un portico «copato» (ricoperto, cioè, di tegole); canoni d’affitto decisamente inferiori sono registrati per orti più piccoli, ma che erano comunque pregiati data la vicinanza alla Seriola Gonzaga, che consentiva di irrigarli con facilità.

È da questi orti, oltre che da quelli posti nella campagna vicina, che arrivano ortaggi e frutta al mercato cittadino. Proprio per agevolare il commercio di prodotti così importanti per l’alimentazione dei cittadini, gli Statuti comunali del 1387 consentivano a chiunque, anche ai non iscritti all’Arte dei fruttaroli, limonari e pollivendoli, di vendere liberamente al minuto i prodotti del proprio orto o fondo agricolo; gli Statuti (che vennero aggiornati nel 1627) contenevano anche precise norme sui pubblici mercati e sulla buona qualità delle merci offerte.

Un’altra testimonianza sugli orti cittadini è contenuta nella prima pianta topografica di Cremona, disegnata da Antonio Campi nel 1585, nella quale accanto ai palazzi, ai conventi, agli ospedali ed agli ospizi appaiono spazi dedicati a giardini ed orti. Ma Ludovico Cavitelli nella sua cronaca annalistica (pubblicata nel 1588) parla solo di «giardini e parchi» in città, senza menzionare gli orti, affidando solo al fertile territorio extraurbano il compito di rifornire i mercati cittadini «di grano, vino, uva, frutti, ortaggi, latticini, miele ... e inoltre altre cose che servono per l’alimentazione e l’uso dell’uomo».

Tra i programmi che il regime fascista aveva predisposto per coinvolgere l’intera popolazione in iniziative a sostegno dello sforzo bellico, era stata posta in primo piano la coltivazione di granaglie e di ortaggi in ogni spazio utilizzabile, e così si presero in considerazione prati e giardini dei parchi pubblici e privati, i cortili delle scuole, gli argini dei fiumi, persino le aiuole spartitraffico...

Al di là dei risultati che materialmente si ottennero con i prodotti di tali coltivazioni, l’obiettivo era anche di tipo psicologico e propagandistico: la guerra richiedeva l’impegno di tutti, e tutti dovevano impegnarsi e sentirsi impegnati; tutti dovevano contribuire e dovevano sentirsi fieri di aver contribuito. Venne perciò data grande diffusione – con la radio, i «cinegiornali» e la stampa – ad ogni iniziativa sviluppata al riguardo, si organizzarono pubbliche cerimonie per la zappatura di terreni incolti o in occasione del raccolto, si istituirono premi, ... Il comune di Cremona, ad esempio, fu premiato nel 1942 per avere occupato con colza, fagioli nani e patate dolci le aiuole dei giardini pubblici, quelle davanti alla stazione ferroviaria, il cortile delle scuole di S. Bernardo, alcune aree del cimitero e perfino alcuni terreni sabbiosi lungo il Po.

In città, tra il 1941 e il 1942, anche numerosi parchi privati furono utilizzati per colture agricole ed orticole (patate, ortaggi, erba medica): tale situazione si verificò nei giardini dei palazzi Trecchi, Mina Bolzesi, Grasselli, Calciati, nel parco della Società Canottieri Baldesio ed in quello degli Ospizi Riuniti.

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[vedi anche: Francesco Puerari, L'orto di guerra]

Il mercato di frutta ed ortaggi si teneva al centro della città, intorno al Duomo, e tale vicinanza, durata secoli, aveva fatto sì che le tre porte della Cattedrale fossero identificate dal tipo di commercio prevalente nell’area antistante: e così porta Ficuum (letteralmente «dei fichi» ) era quella sulla piazza Maggiore; porta Herbarum (delle erbe) era quella del transetto di sinistra, a nord, ed infine porta Piscaria (del pesce) era quella del transetto di destra, a sud.

Ancora nel Settecento sulla piazza Maggiore si vendevano carni, polli, salumi ed altre merci; nella piazza Piccola c’erano i fruttivendoli provenienti dalla campagna; lungo il fianco nord della Cattedrale, nella contrada delle Erbe c’erano i venditori di ortaggi e legumi, mentre i pescivendoli erano sistemati tra il Battistero e il Vescovado.

Si è detto delle norme che regolavano lo svolgimento dei mercati e proteggevano gli acquirenti da comportamenti fraudolenti dei venditori. Per la frutta e la verdura, che spesso arrivava al mercato «corrotta, immatura o imbevuta dalle acque» con danno per la tasca e la salute dei consumatori, i prefetti dell’Ufficio di Sanità avevano ad esempio emanato un provvedimento (10 luglio 1705) affinché da parte degli ortolani e dei fruttaroli «non si potessero vendere erbaggi inondati o macerati dalle acque, né frutte immature o acide»; la multa prevista per i contravventori era salatissima: 10 scudi d’oro. Ma al medico Alessandro Caccia, che pure commentava positivamente il provvedimento e quelli analoghi previsti per i macellai e i panettieri, non sembrava sufficiente un atteggiamento solo punitivo, e suggeriva quindi di incentivare i comportamenti virtuosi, prevedendo «una piccola ricompensa a coloro che recassero al mercato le derrate più pulite e le migliori».

Agli inizi del Novecento, con l’abbattimento delle mura cittadine, la nascita e lo sviluppo di quartieri periferici nelle campagne immediatamente a ridosso della città resero disponibili ampi spazi nelle vicinanze delle nuove case popolari e delle altre costruzioni, e si apprestarono appositi appezzamenti ad orto, come risorsa aggiuntiva per accrescere il modesto bilancio famigliare. Furono occupate da orti anche larghe fasce pubbliche in contiguità alla ferrovia e al Cimitero.

L’interesse per la coltivazione di ortaggi si accrebbe per effetto delle ristrettezze economiche ed alimentari determinate dalla guerra.

Il giornale «La Provincia», il 12 ottobre 1915, si rivolgeva ai cremonesi con un lungo articolo per spronarli a coltivare ortaggi nel difficile momento che l’Italia, entrata in guerra, stava attraversando. Costavano tanto perché se ne coltivavano troppo pochi, venivano da lontano e spesso erano «merci stantive o avariate». Gli ortaggi, alimento sano e gradevole, potevano costituire anche un’interessante fonte di guadagno: «un campo di cavoli (verze) può dare in 1000 mq e con due o tre mesi soli di coltivazione un reddito lordo di circa 300 lire e più, vendendo ad un soldo l’una ogni verza; un campo di pomodori, che possono succedere nello stesso terreno a piselli o ad altra coltura, può rendere circa 80 lire alla pertica. Un campo di cipolle paga in due anni il valore del terreno; i fagiuoli sono nutrienti quanto la carne e rendono quattro volte più del melgone; i piselli, che si seminano bene anche in ottobre, rendono quanto le patate e lasciano libero il terreno entro giugno». Era dunque opportuno e conveniente estendere l’orticoltura nel Cremonese.

L’interesse per l’attività orticola rimase vivo anche negli anni successivi, e venne addirittura sostenuto negli anni della seconda guerra mondiale da specifiche campagne propagandistiche governative.

Le ultime ortaglie cittadine erano all’Ospizio Soldi, e rimasero attive fino alla fine degli anni Settanta, quando vennero sostituite da un giardino. In una recente pubblicazione dedicata all’Ospizio, si legge una descrizione del primo Novecento: «la casa del Zocco (1) ... ha due belle ortaglie, una a sera e l’altra a mattina, con bei viali pergolati», e più oltre: «il terreno che circonda il fabbricato nel 1932 accolse un’ortaglia, una vigna e un frutteto curato dagli ospiti sotto la guida di un ortolano ». Una bella foto degli anni ’60 raffigura l’ortaglia chiusa da una recinzione metallica; un’altra, scattata da Ezio Quiresi, ritrae l’ultimo ortolano dell’ospizio, un certo Crotti, che vi lavorò fino alla trasformazione in giardino.

(1). El Sòch, qui italianizzato ne «il Zocco», era il nome popolare attribuito all’Ospizio.