headerphoto

II. Testimonianze di vita cremonese di città e di campagna

Per conoscere quanto le tradizioni indicate nel capitolo precedente si siano mantenute, si siano trasformate, siano sparite, siano state ripristinate dopo lunghi periodi di oblio ho chiesto ad amici e conoscenti di darmi testimonianza dei loro ricordi legati ai cibi e ai riti delle feste nelle loro famiglie. Ho cercato poi altre informazioni relative a Cremona e al suo territorio su libri a stampa, riviste, giornali.

  

2.1. Testimonianze orali

 

Le testimonianze raccolte sono per la maggior parte desunte dalla pubblicazione I Cremonesi a tavola, un libro sulle tradizioni alimentari di città e campagna, altre invece raccolte oralmente e da me trascritte proprio in occasione di questa indagine sulla cucina delle feste religiose. Mi riferisco alle testimonianze soresinesi (Bruno Bandera, Giorgio Armelloni, Valter Venchiarutti) e a quelle di Emilio Sacchi, Antonietta B., Barbara, Vanda Bacchini.

Il pranzo per S. Omobono, patrono dei sarti (e di Cremona)

Il patrono di Cremona è S. Omobono e si festeggia il 13 di Novembre. È anche il protettore dei sarti. Il mio papà era un bravo sarto da uomo. La mattina, durante la S. Messa in Duomo, tutti i sarti della città portavano all’altare alcuni tagli di stoffa da offrire ai poveri. Negli anni ‘50 del ‘900 la sua sartoria contava ben 25 lavoranti, cosi venivano chiamati i suoi dipendenti. Tanti di loro venivano dai piccoli paesi di campagna, naturalmente in bicicletta. Ricordo che soprattutto le ragazze portavano da casa il pranzo e in inverno le loro gavette venivano messe a scaldare sulla grande stufa della nostra cucina. Il giorno di S. Omobono era festa grande in casa mia; la mamma preparava un ricco pranzo per tutti. Venivano avvicinati i tavoli da lavoro per ricavarne una lunga tavolata. Il piatto che veniva sempre richiesto era la pasta al forno così la chiamavano allora: erano lasagne, insaporite da una besciamella fantastica e dai fegatini di pollo al ragù, che la mamma faceva su ricetta della sua carissima amica Antonietta, romagnola. Sembra incredibile ma questo piatto risultava allora quasi esotico per i cremonesi, soprattutto se provenienti dalla campagna. Alla fine del pranzo anche le ragazze più timide ridevano volentieri. Di questa festa poi si parlava ancora per molto tempo. Tutti ci tenevano proprio tanto.

Carla Milanesi

La festa al Santuario della Beata Vergine di Ariadello

La seconda domenica di maggio ad Ariadello, località a pochi chilometri da Soresina, si festeggiava, nel santuario della Beata Vergine, un miracolo compiutosi alla metà del Seicento. C’era nei pressi di una cappella diroccata un’immagine dipinta della Vergine col bambino Gesù, oggetto di grande venerazione popolare perché si diceva fosse miracolosa. Qui la figlia sordomuta dei feudatari di Soresina, i signori Barbò, nell’offrire un mazzolino di fiori alla Vergine acquistò la voce . Questo evento straordinario fu salutato da una raccolta di offerte generose che vide accomunati i Barbò ed i soresinesi nella costruzione di una chiesa che, inglobata l’antica immagine votiva, venne via via ampliata e abbellita. Per tradizione i soresinesi la 2° domenica di maggio e il lunedì seguente, andavano a far merenda nei prati intorno al Santuario e sotto il portico (i parrucchieri ci andavano invece il martedì perchè era il loro giorno di chiusura): uova sode, pane, salame, insalate cotte e crude, vino si gustavano in allegria , stando seduti per terra. Negli anni ‘70 del Novecento io con altri amici, visto che la tradizione era quasi scomparsa , ci siamo messi d’impegno a ripristinare la chiesa, ormai da tempo abbandonata. Sistemate le stanze adiacenti l’edificio sacro, le merende ripresero non più sui prati ma seduti attorno ai tavoli su comode panche. Mamme, sorelle,mogli a gara preparavano torte, frittate, gnocchi: l’oggetto delle merende era cambiato. Ora la ricorrenza è gestita dall’oratorio della parrocchia di San Siro e, spariti i cibi della tradizione , ora si gusta la pizza e il pesce fritto.

Bruno Bandera

Perché a San Martino si mangia l’oca?

Anche in questo la tradizione contadina si intreccia a doppio filo con la leggenda riguardante il Santo [Antonio]. Si narra infatti che il Papa volesse a tutti i costi nominare vescovo Martino, il quale invece molto umilmente non desiderava occupare posizioni importanti perché voleva dedicare la sua vita alla preghiera, all’evangelizzazione e all’aiuto ai poveri. Allora Martino si nascose in convento sperando che nessuno potesse scovarlo. C’erano però delle oche, che si sa sono animali molto chiassosi. Le oche fecero un tale baccano con i loro “qua qua”,che alla fine Martino venne scoperto. E divenne vescovo. Da allora, ogni anno, a ricordare il tradimento delle oche, un’oca veniva arrostita. Nella tradizione contadina l’11 novembre si chiudevano vecchi contratti agricoli e se ne aprivano di nuovi. L’oca rappresentava, insieme al maiale, la riserva di grassi e proteine durante il periodo invernale del povero contadino, il quale si cibava quasi esclusivamente di cereali e di grandi polente. Nel Medioevo, inoltre, l’oca veniva allevata anche nei monasteri e nei conventi, come aveva decretato Carlo Magno. L’oca divenne perciò una preziosa e fondamentale merce di scambio. I fittavoli ed i mezzadri spesso con un’oca pagavano la pigione al possidente, inoltre i contadini portavano alle fiere, che venivano organizzate in tale periodo, le loro oche per barattarle con altre merci, quali ad esempio capi di vestiario.

Emilio Sacchi

I dolci delle feste della mia infanzia

Penso di non poter essere molto utile perché le tradizioni di cui si cercano testimonianze hanno più seguito in campagna che in città. Tuttavia ricordo che quando ero piccola, diciamo oltre 50 anni fa, per S. Antonio abate, mio santo protettore, quando ancora il patronato degli animali non era così sentito e le bestie da far benedire erano solo quelle che vivevano in cascina, per il mio giorno si faceva la classica sbrisolosa cremonese, durissima perché priva di mandorle. Nell’ambito degli oratori si festeggiava S. Agnese, poi essendo anche in tempo di carnevale si mangiavano i bumbuneen e i dolcetti duri (mi sfugge il nome) fatti con gli albumi non usati per fare i biscotti per cui necessitavano solo i tuorli. In casa mia poi tuttora festeggiamo S. Rocco, il 16agosto, con un bel piatto di gnocchi di patate al pomodoro, fatti rigorosamente in casa

Antonietta B.

Il pane di Sant’Antonio

Nel Santuario di S. Antonio, affiancato alla chiesa di S. Ambrogio in Cremona, fino alla fine del secolo scorso convento dei frati minori, il 13 giugno di ogni anno, festa dedicata a S. Antonio da Padova, il santo dei miracoli, alla messa del mattino c’era la benedizione e poi la distribuzione di pane benedetto.

Barbara

I beligòt di Sant’Antonio

Il 17 gennaio, in occasione della benedizione delle stalle da parte del prete (Sant’Antonio è il protettore degli animali) si facevano lessare le castagne ormai secche (i beligòt), perché raccolte dall’autunno prima, e si offrivano una volta finita la benedizione. Come ricetta tradizionale posso dirle che al 28 luglio, giorno dei patroni di Sesto Cremonese S.Nazzario e S. Celso, in tutte le famiglie del mio paese è tradizione fare gli gnocchi e la pro-loco del mio paese li regala la sera in piazza. La stessa pro-loco i giorni della merla, di solito organizza una distribuzione di vin brulè, brisolosa e lattughe a fine gennaio quando i cantori della parrocchia cantano i cori della merla e si brucia la vecchia.

Wanda Bacchini

La bomba di riso per utilizzare gli avanzi delle feste di Natale

Delle più importanti feste annuali memorabile era Natale, quando la tavola veniva allungata per accogliere gli ospiti (i nonni, gli zii e i cugini di Parma, un paio di amici di famiglia che non mancavano mai) e preparata, con la bella tovaglia ricamata, fin dalla sera della vigilia per venire sparecchiata solo la sera di S. Stefano. La vigilia prevedeva i tortelli di magro con la ricotta, le lumache stufate con i funghi secchi e l’anguilla marinata. Il pranzo di Natale era particolarmente ricco, con antipasti di salami, il patè di fegato preparato dalla nonna, gli agnolotti cotti nel brodo di gallina, manzo e vitello, le salsine verdi e ai peperoni sott’aceto che accompagnavano le carni lessate, il salame cotto per completare il piatto dei lessi, e il cappone al forno con il suo bravo ripieno fatto con il pane biscottato macinato finemente e uova, insaporito con abbondante grana e aromatizzato con la noce moscata. Per dolce non mancava mai il torrone e la torta farcita, confezionata dal pasticcere, finché sono arrivati i primi panettoni Motta, che hanno avuto ben presto un posto d’onore entrando subito nella tradizione, (anche se oggi inflazionati e quasi declassati al rango di companatico della prima colazione). Per S. Stefano c’era un mare di avanzi, ma la mamma preparava sempre la cosiddetta bomba di riso, uno sformato con un abbondante ripieno di ragù ricco di carne e fegatini di pollo, che per me era il piatto migliore di tutto il Natale. Per la festa di Ognissanti e dei defunti la tradizione voleva in tavola la zuppa di fagiolini con cotenne, e gli ossetti, biscottini fatti in casa con farina bianca e gialla

Maria Grazia Bellotti Guarneri

La fantina pasquale

La mamma non era una gran cuoca, ma ricordo che con tre uova, strutto e polenta molle riusciva a fare una frittata grande che nutriva 6 figli. A Pasqua si faceva la pasta per le tagliatelle (acqua e farina), chi era più ricco e poteva permetterselo preparava la pasta frolla. Si faceva con questa pasta una bambolina, le si appoggiava tra le braccia un uovo già sodo e la si metteva nel forno dopo averla spennellata con un po’ di albume: si chiamava la fantina.

Lina Soldi

I pranzi delle feste

La vigilia di Natale non mancavano mai i tortelli di zucca, la bisetta(anguilla marinata) e i sottaceti fatti in casa; a Natale, invece, c’era persino l’antipasto: salame e sottaceti che venivano portati in tavola prima dei ravioli in brodo, si proseguiva con il lesso e l’arrosto e si finiva con la torta, arance e mandarini, noci, fichi secchi e torrone. A Pasqua il pranzo era simile a quello di Natale, ma l’antipasto era a base di uova sode tagliate a metà e farcite riempiendo il vuoto lasciato dal tuorlo con rosso d’ovo sodo mischiato a sottaceti; la torta margherita , poi, era guarnita con una crema bianca, forse era panna, ma non ricordo bene. Per sant’Antonio abate era già carnevale e a pranzo c’erano i tortelli di zucca e il cotechino; si mangiavano poi tanti dolci: la torta sbrisolona fatta con l’unto tolto dal brodo del cotechino, i bombonini e le meringhe, cioè le spumiglie. Anche il pranzo della sagra, cioè della festa del paese, era particolarmente abbondante: ai marubini in brodo seguivano il lesso e l’arrosto con verdure e sottaceti, il formaggio e il salame; si finiva con torte di diverse qualità.

Silvana

A tavola nelle feste comandate

Alcuni santi erano particolarmente venerati in campagna: San Biagio, ad esempio, e San Rocco, ma era soprattutto Sant’Antonio, protettore degli animali, che veniva celebrato anche con un cibo speciale: nella sua ricorrenza al mattino si consumava una focaccina bassa a base di pane, strutto e sale, accompagnata da ottimo vino bianco. Nel giorno della sagra (la festa del santo patrono del paese) il pranzo era curato come nelle festività più importanti: si avevano quindi antipasti a base di salumi, primi costituiti da ravioli, lasagne al forno o risotto e secondi a base di carni lesse ed arrosto; il dolce era particolarmente curato e si arricchiva con una farcitura di crema, budino o zabaione una delle consuete torte festive. A Carnevale si confezionavano dolci fritti: frittelle e lattughe, che qualcuno chiama anche chiacchere, castagnole, bomboncini, cioè piccoli biscotti di pasta frolla a forme varie, ottenute con stampini a forma di cuore, di fiori, di rombo, di uccellino, etc. Per il pranzo di Pasqua il menu era quello consueto dei giorni di festa, ma si aggiungevano le uova, sia sode che cotte in frittata, accompagnate da erbe primaverili come il radicchietto o l’insalatina fresca. Sulle tavole dei benestanti arrivava anche il capretto o l’agnello al forno, cui si univa un pezzo di carne di bue. La vigilia di Natale era una festa particolarmente sentita, ma era giorno di magro e per cena ci si atteneva con rigore al precetto religioso evitando assolutamente la carne; era una festa di tortelli di zucca, col ripieno insaporito da mostarda ed amaretti, conditi con burro e abbondante formaggio grattugiato oppure con salsa di pomodoro; seguiva un piatto di pesce che poteva essere, per le famiglie abbienti, sogliola al forno o altri pregiati pesci di mare ( ma non si disdegnava il più tradizionale capitone ), mentre i più poveri si accontentavano di pescetti o di anguilla marinata. Le famiglie più ricche non si facevano mancare lo stracchino con la mostarda di Cremona. Il vero trionfo della cucina era il pranzo di Natale: per questa grande e solenne festività si cercava infatti di preparare quanto di meglio si poteva: marubini quindi con brodo di cappone o di manzo, o meglio ancora misto; non potevano mancare gli antipasti, di soli salumi o anche con qualche stuzzichino, accompagnati in questo caso da un ottimo vino bianco che fungeva da aperitivo. Per secondo cappone o manzo lessato con contorni di salsa verde o anche purè di patate, poi immancabilmente l’arrosto, sia di pollo che di vitello; infine i dolci:la torta margherita con il budino di cioccolato ( che è stata man mano sostituita dal pandoro o del panettone di produzione industriale, che hanno soppiantato quasi dappertutto i dolci tradizionali fatti in casa), cioccolatini e torrone.

Fulvio Scolari

L’anguria di S. Rocco e la cucina delle feste

Alla festa di S. Rocco si usava, secondo la tradizione, portare in chiesa l’anguria più grossa. Poi a pranzo si preparavano gli gnocchi con un ragù di sedano, carote, cipolle, pomodori e pancetta. Il giorno della sagra del paese si preparava la solita gallina a lesso ripiena, tagliatelle in brodo e coniglio arrosto o gallina faraona; come dolce la torta paradiso con zabaione. Alla vigilia di Natale si cucinavano i tortelli di zucca, le lumache e il capitone; si finiva con frutta secca e mandarini. Il giorno di Natale si lessava il cappone ripieno, il salame da pentola e la carne di manzo; nel brodo così ottenuto si facevano cuocere i marubini e quindi si preparava il tacchino allo spiedo, cominciando la sua cottura fin dal mattino. Come contorno si usava la mostarda e si preparava una specie di flan con carote, patate e spinaci e lo si coceva a bagnomaria in uno stampo da budino. La torta margherita,cotta nelle brace si farciva con burro e liquori. A carnevale si preparavano le lattughe, le frittelle di semolino,le castagnole e dei tortelli di frutta con senape di mostarda in pasta sfoglia, poi fritti e cosparsi di miele caldo: erano complicatissimi da fare, ma buonissimi. Si preparavano a volte fin dall’Epifania, poi si mettevano in scatole di latta perché si conservassero a lungo. Il giorno di Pasqua si preparava il brodo con la gallina ripiena e la carne di manzo, e nel brodo si cuocevano i soliti ma rubini; si cucinava poi un bel gallo arrosto; come contorno appariva sempre la mostarda ed inoltre venivano aggiunte cipolline comasche (che sono piccole e piatte) in agrodolce: si rosolavano bene nel burro e dopo si aggiungeva un pizzico di sale, lo zucchero e l’aceto, alla fine dovevano risultare con un intingolo spesso quasi come un caramello. Il dolce era la solita torta paradiso con zabaione, o torta margherita farcita con burro e liquori.

Teresa Rebecchi Abitanti

La cottura del chisòl di Sant’Antonio

Per Natale, principale festa dell’anno, non mancava mai il cappone, che veniva preventivamente ingrassato, chiuso nella stia. Nella festività veniva lessato ripieno, fornendo così un brodo che richiedeva di essere sgrassato. Il Natale era festeggiato in famiglia, senza riunione di parenti. Ugualmente però si usavano la tovaglia e le stoviglie delle grandi feste, che subito dopo venivano riposte. Nelle feste particolari non mancava il dolce, che ricordo sempre fatto in casa. Per carnevale si facevano, come adesso, frittelle, lattughe, e castagnole che venivano fritte non in olio, ma nello strutto. In particolare si celebrava S. Antonio e in quel giorno non dovevano mancare i tortelli di zucca e il chisòl, cioè una specie di bussolano, ma di una pasta più dura e veniva cotto così: si mettevano a terra delle braci, sopra si appoggiava una graticola, su questa una teglia di rame in cui si metteva la pasta; la teglia veniva debitamente coperta e sul coperchio si posavano altre braci in modo che il calore venisse emanato sia dal basso che dall’alto. Alla preparazione del dolce contribuivo anch’io, andando a comperare gli ingredienti necessari; ricordo che correvo felice in un negozietto gestito… a tempo pieno da un’anziana donnetta e nel quale stavano parecchi sacchi dall’orlo rimboccato in modo che si vedessero i prodotti contenuti. Sul banco c’erano due o tre piccole sessole con le quali la Rina prendeva dai sacchi la quantità richiesta di zucchero o farina, come di pasta o di riso, e la metteva sulla bilancia a due piatti, uno dei quali serviva per i pesi e l’altro per la merce. Se si trattava di acquisto di zucchero, in genere ne compravo due o tre etti, usava una carta particolare, di colore bluastro, consistente, chiamata appunto carta da zucchero; tolto dalla pesa il foglio diventava, sotto quelle mani smilze e scheletrite ma veloci, un cartoccetto; se erano più di uno li mettevo nella sporta (borsa fatta con le bratte delle pannocchie, i così detti scartòs). Nel periodo delle festività pasquali c’era il Venerdì santo, che era di magro e digiuno; anche al sabato il vitto rimaneva parco mentre il giorno di Pasqua nel quale si mangiavano i normali cibi domenicali, veniva messo a centro tavola un piatto contenente uova sode colorate, che davano un tocco di festività (il processo di preparazione avveniva cuocendo le uova avvolte in carta particolare, crespata, che perdeva il colore, tingendo così il guscio).

Valeria Pini

I benedetti

E’ dall’Ottocento che a Vescovato si preparano dei dolci chiamati benedetti. Era una tradizione sconosciuta nei paesi limitrofi e forse unica nel suo genere . Persone più che novantenni testimoniano che li acquistavano da bambini dal fornaio della piazza di Vescovato. Ciò significa che la tradizione risale a tempi molto lontani, sicuramente a più di un secolo fa. Sono dolci piatti e secchi, non lievitati, ottenuti impastando 1 Kg di farina bianca,100 gr di burro, acqua quanto basta ed 1 pizzico di sale. Si lascia riposare un po’ la pasta, poi si taglia a pezzi, si passa nella macchina della pasta, si modella con le mani in modo da ottenere un disco piatto, che poi si pizzica un po’ qua e un po’ là e si cuoce a 180° gradi. Una volta raffreddati si spennellano col miele e si ricoprono di codette colorate. Questa è la ricetta attuale della forneria Rinaldi, ma anche un’altra forneria di Vescovato li produce. I pizzicotti erano d’obbligo perché i dolci prendessero quasi una forma di fazzoletto con i quattro nodi agli angoli, che servivano un tempo da copricapo. Ho intervistato molti vescovatini “doc” sul significato del nome Benedetti. Pierina Bonali li ha sempre fatti per S. Benedetto, primo giorno di primavera; penso che la guarnitura di miele e confettini colorati e argentati, un tempo chiamata benediga, stesse quasi a significare il risveglio della natura, dei fiori, delle api: insomma, il benvenuto della primavera. La versione più curiosa me l’ha fornita Giuseppe Mari (detto Maricendi) che, a sua volta, l’ha avuta da Ezechiele Giacomelli, un tempo fornaio in Vescovato. I Benedetti venivano preparati per l’epifania, portati in chiesa per una benedizione e dati in pasto alle bestie, perché fossero protette da malattie. Era un rito propiziatorio le cui ragioni non sono chiare; di sicuro si dice che in seguito furono mangiati anche dalle persone perché li trovarono molto buoni.

Maria Rosa Arisi Guarneri

Le uova colorate

A S. Antonio veniva il prete a benedire le stalle e a recitare il rosario, ma non era un giorno di festa per la cucina. La sagra era invece molto festeggiata sia in chiesa, che in paese (bancarelle e giostre) che in casa. A Pasqua coloravamo le uova delle galline mentre si facevano rassodare, ma io ero una privilegiata perché avevo due zii (che erano portinai a Cremona in casa Stradiotti) che mi regalavano sempre un bell’uovo di cioccolato.

Marisa Giazzi

Torte rustiche

Si facevano le chisoole con lo strutto, zucchero, farina bianca ed uovo: la forma era di grosso pane allungato, tipo ciabatta. Si faceva anche la bertulina con il redundel (il cruschello), lo strutto, le uova e lo zucchero: era cotto nella cenere. Ricordo che queste torte rustiche nei giorni dei grandi bucati venivano regalate alle donne che avevano partecipato alle operazioni di lavatura dei panni. Era molto buona anche la margherita, una torta fatta con tante uova e senza lievito; andava cotta sotto le brace, lentamente. Si facevano poi budini bianchi (con le uova) e neri (con la cioccolata); a carnevale era la volta delle lattughe e dei tortelli ripieni.

Gina (di Costa S. Abramo)

Le tagliatelle al burro

La sagra del mio paese, S. Savino, si festeggiava proprio il giorno di S. Antonio, protettore degli animali: se era possibile si cucinavano un po’ di marubini, un po’ di carne e un po’ di salame. In paese ballavano e a noi ragazzi non interessava la pügnàta, ma solo ballare e divertirci. La sera della vigilia di Natale davano ai bergamini oltre al latte anche il burro, e ricordo che mangiavamo tagliatelle asciutte con tanto di quel burro che non finiva più e la mattina di Natale, al ritorno dalla messa si mangiavano quelle tagliatelle riscaldate che erano una bontà. A Natale c’erano marubini, la gallina e il cappone ingrassato tutto l’anno per l’occasione. Per Pasqua era tradizione fare la torta , mentre a carnevale si facevano camàaldulin e frìtule mati.

Emilia Chiappani Donelli

La torta all’olio

Per le feste si mangiavano marubini, gallina ripiena e scaramella bollita, salumi, torta all’olio, budino con le uova, non con il cioccolato perché il cacao costava troppo. A S. Lucia c’erano dolcetti per noi bambini, portati da una sorella della mamma che arrivava con una cavagna colma. Per S.Antonio si mangiavano, nella stalla, frittelle, lattughe, ossetti, barigolini e bombonini che erano poi anche i dolci del carnevale. Le nonne intanto filavano, lavoravano ai ferri, facevano calze per gli uomini. A S. Biagio si benedicevano le gole; l’abitudine del panettone riscaldato è venuta molto più tardi. Per la festa di S. Giorgio, il 23 aprile, c’era la sagra del paese e la mamma cucinava anche la crostata. Il dolce preferito era comunque la torta all’olio. Questa la ricetta: si uniscono 4 etti di zucchero, 1 bicchiere di olio di semi e 6 tuorli d’uovo; a parte si montano gli albumi a neve, si uniscono al resto insieme a 4 etti di fecola e a 1 bustina di lievito vanigliato. Si mescola il tutto molto bene, si mette la pasta ottenuta in una teglia e si cuoce in forno per 50 minuti alla temperatura di 160°.

Bruna Dal Bono

Tortelli di zucca con il pomodoro

Solo in occasione della vigilia di Natale in cui bisognava rispettare il magro e a gennaio per S. Antonio, protettore delle stalle, la mamma cucinava i “blisgòn”: tortelli di zucca fatti a cresta di gallo e conditi sacrosantamente ( checché altri ne pensino ) con il pomodoro perché il dolce va bilanciato con l’acidulo. A Natale per colazione si mangiavano i tortelli avanzati dalla Vigilia, dopo averli scaldati saltandoli in padella; a pranzo c’erano i marubini , fatti con lo stracotto, saporitissimi. Per la sagra di S. Carlo, il 4 novembre, mangiavamo marubini e cappone. A Pasqua si raccoglievano radicchi selvatici e si facevano bollire nell’acqua in cui si rassodavano le uova che così si coloravano di verde.

Franco Cimardi

Pasqua di guerra

In tempo di guerra non c’era cioccolato e nessun bambino mangiava a Pasqua le uova di cioccolato, ma ci si ingegnava per avere delle uova speciali, tutte colorate. Si raccoglievano i funghi del legno, li si faceva bollire e nella stessa acqua si mettevano a cuocere le uova: il risultato erano uova sode il cui guscio, che aveva assorbito il colore scuro dei funghi, sembrava di cioccolata. Per il giallo si usava il ravizzone, per il verde il grano tenero o l’erba. I bambini tiravano per le strade sassose di campagna le catene del camino, per pulirle dalla fuliggine. Ognuno tirava quelle della sua famiglia ma qualcuno si impegnava a farlo anche per i vicini e si tirava dietro, cinque o sei catene. A pagamento naturalmente: la paga in natura era di uova sode colorate.

A. Soldi

La torta di mele

Eravamo molto poveri e tante cose non si potevano fare, ma sempre festeggiavamo l’onomastico del papà a S. Pietro, che coincideva con la fiera d’estate, e in quell’occasione mangiavamo una squisita torta di mele con la pastafrolla.

Gloria

Gnocchi o tagliatelle per la Vigilia

Era festa grande per S. Rocco: ricordo che il papà, capocavallante in una cascina di Stagno Lombardo, portava la moglie del padrone a messa in carrozza; in paese si faceva la processione con la statua del santo e noi mangiavamo gli gnocchi. La vigilia di Natale si mangiavano gli gnocchi o le tagliatelle asciutte: tornati dalla messa, il giorno di Natale si riscaldava ciò che era avanzato e lo si mangiava di gusto. Era festa grande anche per Pasqua. Dopo le pulizie pasquali in cui si facevano brillare le pentole di rame e tutta la casa, quando i bambini correvano per le stradine tra i campi tirandosi dietro le catene del camino per pulirle dal fumo e dalla fuliggine … Poi arrivava la Pasqua: la mattina si cocevano tante uova e le si colorava di verde con le piantine piccole del frumento fresco.

Ravasi Pagliari

Lumache a Natale

Natale arrivava in fretta e presso la mia famiglia si festeggiava la vigilia in modo tradizionale. Tortelli di zucca, bisèt (anguilla marinata), pesce e soprattutto le lumache con gli spinaci, queste ultime rigorosamente percolate e raccolte nei campi. Un altro modo di cucinarle era quello di rosolarle con il guscio su un fornelletto di ghisa, dove le braci ardevano grazie allo sventolio di una ventola fatta con penne di tacchino. Personalmente, credo che le lumache siano il cibo più laborioso in assoluto da cucinare. In gennaio si festeggiava Sant’Antonio, protettore degli animali. Il suo altarino veniva rinnovato con l’edera e con carta colorata decorata con trafori fatti con le forbici. Nella stalla veniva approntata una tavolata, appoggiata su balle di paglia e imbandita con dolci di carnevale: bombonini, lattughe, castagnole, e vino a volontà. Che festa! Tutti i contadini partecipavano felici per quell’abbondanza.

Mara Sartori Bellometti

Strage di polli per il Santo Patrono

Naturalmente anche le feste natalizie erano solennizzate da pranzi particolarmente succulenti. La vigilia venivano preparati i tortelli di zucca, le lumache e una portata di pesce. Un particolare che mi torna alla memoria è che i primi tortelli scolati, prima di procedere alla normale preparazione con il burro fuso, venivano riversati in una tazza di brodo e dati come assaggio al papà,che ne decretava la buona riuscita. Il giorno di Natale non mancavano mai i marubini oltre a doppie portate di carne e i dolci tra cui il torrone e il panettone, gli unici che venivano acquistati. Per Pasqua la mamma cucinava sempre l’agnello, ma il momento dell’anno in cui si impegnava di più era la sagra di Vescovato dedicata al patrono S. Leonardo, che cade il 13 dicembre. Nei giorni immediatamente precedenti si intensificavano i preparativi per accogliere i numerosi parenti e amici invitati nella ricorrenza. Veniva approntato un lungo tavolo con bella tovaglia di fiandra e la cucina era in gran fermento. La mamma si cimentava nei ricchi antipasti, tra i quali i vol-au-vent pasta sfoglia che sapeva fare con grande abilità,e nei primi, tra cui immancabili i marubini. Per i secondi non c’era che l’imbarazzo della scelta tra lessi e arrosti (in quelle occasioni una parte del pollaio veniva immolata per glorificare il Santo Patrono), e infine un trionfo di dolci nella cui preparazione la mamma si sbizzarriva tra le sue numerose ricette. Mi viene in mente in particolare, tra le sue specialità, il gateau preparato con panna, cioccolato e altri deliziosi ingredienti, la creme caramel e il pasticcio di castagne.

Giancarla Santini (di Cella Dati)

Gli gnocchi di S. Rocco

I dolci erano molto semplici: crostate, torte margherita che venivano alte un palmo; quando abbondava lo strutto era la volta della sbrisolosa; in autunno con le castagne veniva confezionato il dolce monte bianco ; per Natale c’erano i tortelli dolci fritti. Si faceva tutto in casa: l’eccezione era S. Lucia quando caramelle di zucchero, bignè, cannoncini, paste con la frutta venivano acquistate dal fornaio ed andavano ad arricchire il piatto di arance e mandarini. Per S. Antonio, il 17 gennaio, si cuocevano le castagne secche e a carnevale erano immancabili i biscottini al forno, castagnole, frittelle e lattughe. A Natale e Pasqua il pranzo si assomigliava: c’erano antipasto di salame e verdure dell’orto conservate in agrodolce nei vasetti di vetro, agnolotti in brodo e gallina ripiena, manzo lesso e salame cotto, salsina verde di prezzemolo. Solo quando sono stata più grandicella ho visto introdurre nel menu pasquale una vera leccornia: l’arrosto di vitello. La vigilia di Natale era rigorosamente di magro con tagliatelle al sugo di conserva, anguilla marinata, mostarda, tortelli dolci e torrone. A Pasqua si coloravano le uova dopo averle svuotate soffiando energicamente dai piccoli fori praticati con uno spillo. La mamma era abile nel preparare con gli albumi avanzati le meringhe da cuocere la sera nel forno che, ormai spento, custodiva un dolce tepore. In piena estate per S. Rocco si preparavano gli gnocchi, ma la grande festa era a settembre in occasione della sagra quando venivano invitati i parenti. Il pranzo era molto curato e fin dal giorno precedente si sentivano i coltelli battere sul tagliere per preparare la salsa verde, e le donne si affacciavano sulla porta di casa a sbattere le uova per la torta margherita ed era una gara a chi la faceva più alta. Ma la buona riuscita dipendeva soprattutto dalla temperatura del forno, che doveva essere moderata e costante, risultato difficilissimo da ottenere nelle stufe a legna: solo la massaia esperta sapeva valutare bene il ceppo di legna da usare.

Pierina Beltrami

Il torrone come premio

La mattina di Natale il nonno mi diceva di guardare sotto la cenere del camino perché, se ero stato bravo, forse Gesù bambino si era ricordato di me. Quando poi sotto la cenere trovavo la stecca di torrone mi sembrava di avere trovato il tesoro più bello. I chierichetti della parrocchia di Borgo Loreto, una quindicina dai 7 ai 12 anni, dopo i vespri solenni dell’Epifania, venivano premiati per il loro impegno dal parroco don Franco Amigoni con la lettura, in una chiesa gremita e festante, dei nostri nomi cui seguiva la consegna di una stecca di torrone, abbellita da un nastrino rosso.

Giuseppe Ardigò

Il piatto di Gesù Bambino

Negli anni Trenta del Novecento, quando la mamma Mariuccia e le sue sorelle Romea ed Adriana erano bambine, nella loro famiglia residente a Torre Picenardi, c’era questa simpatica consuetudine. La vigilia di Natale, nella cappa del grande camino che si trovava in cucina,.si sentiva un colpo forte: “E’ arrivato il piatto di Gesù bambino” diceva il papà e tutte agitate correvamo in cucina con il cuore gonfio che batteva forte per l’emozione. Nel piatto trovavamo una mela, un’arancia, arachidi, caramelle coperte da carte colorate, qualche torroncino nella sua scatoletta, da cui ritagliavamo le figurine riproducenti i personaggi della storia cremonese. Nella bella stagione poi con le amiche giocavamo a “pitigòs”: appoggiavamo le figurine tra le dita della mano sinistra tenuta verticalmente e con un colpo secco dell’indice della mano destra le scagliavamo lontano verso il muro. Vinceva chi arrivava più vicino al muro e si aggiudicava quelle degli altri.

Mila Lanfranchi

Il cappello pieno di torroncini

Terminata la cena della vigilia si passava al momento più atteso della serata: la discesa dalla cappa del camino dei torroncini buttati da Gesù bambino. Il papà introduceva nella cappa del camino un cappello rivolto al contrario e, tenendolo saldamente in mano gridava: “Gesù butta giù i torroncini per i miei bambini!” Naturalmente bisognava essere stati bravi ed ubbidienti per meritare il dono. Alla prima chiamata normalmente il cappello si riempiva di carbone, la seconda volta di tutoli e di torsoli di verza, preventivamente preparati senza farsi vedere. Scattavano così i sensi di colpa e le solite considerazioni: non siete stati bravi abbastanza, dovete essere più ubbidienti… Finalmente, dopo ripetuti buoni propositi da parte nostra, al terzo tentativo il cappello si riempiva di torroncini. Io li mangiavo solo a Natale, a volte anche il giorno di santa Lucia.

Mariarosa Arisi Guarneri

I dolci di S. Lucia

Santa Lucia era la notte più lunga dell’anno perché era la più attesa, la più desiderata, la più vissuta. Noi bambini ci si alzava all’alba. Era il momento della sorpresa. Giocattoli pochi, eravamo sette fratelli: qualche carrettino e macchinina costruiti con un po’ di legno,qualche elastico e un po’ di corda. A contorno monete di cioccolata ricoperte di carta dorata, una stecca di torrone, qualche torroncino confuso tra caramelle, confetti e qualche pasticcino: ne ricordo perfettamente ancora l’odore. Era una grande festa che durava l’intera giornata. I dolci si portavano a scuola per condividerli con i compagni.

Walter Montini

La farina per l’asinello

Quando ero piccola la mia mamma preparava per ciascuno di noi bambini un piatto con la farina per l’asinello di S. Lucia e lo poneva sul davanzale della sua finestra. Poi lasciava cadere a terra un po’ di farina, come se l’asinello l’avesse assaggiata e sulla farina rimasta metteva un grappolo d’uva appassita (raccolta nella precedente vendemmia), qualche caco, una manciata di noci e una di castagne bollite, qualche caramella con la carta a frange, uno o due torroncini Vergani: il numero dipendeva dalla nostra buona condotta o dalla buona annata agricola.

Annamaria Ghirardi